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Rivista on line di Azione Universitaria

lunedì 16 agosto 2010

COMUNICATO STAMPA - DEGRADO NELLE PIAZZE DI RIFERDI

DONZELLI, MORETTI, CASTELNUOVO TEDESCO (PDL): «"CAMPING ROM" NELLE PIAZZE EMBLEMA DI DEGRADO E ABUSIVISMO»

 

«Le piazze fiorentine d'estate si trasformano in camiping abusivi per ROM, sbandati e clandestini. Nel quartiere cinque Piazza  della Vittoria e Piazza Dalmazia sono devastate dal degrado.

Il Sindaco Renzi in campagna elettorale aveva sbandierato un grande amore per Piazza Dalmazia, deliziandoci con i suoi racconti autobiografici di quando studiava al Dante e passava le giornate in quella Piazza. Oggi che Renzi è sullla poltrona, la piazza è abbandonata al degrado. In Piazza Dalmazia,  invece, quando la mattina si alzano i campeggiatori abusivi, nello stesso posto sorge il mercato alimentare; dove hanno dormito e urinato rom e abusivi si posano le casse della frutta e della verdura. Ci chiediamo con quale sicurezza sanitaria per gli acquirenti.»

Dichiarano il consigliere regionale Giovanni Donzelli (PdL), assieme ai consiglieri del Quartiere 5 Chiara Moretti e Guido Castelnuovo Tedesco.

«Diciamo basta ai "camping estivi" dei rom nelle piazze di Rifredi. Il Comune di Firenze e la Polizia Municipale affrontino di petto un problema così concreto e annoso», .

«Da troppo tempo le piazze del quartiere di Rifredi sono interessate dai bivacchi dei nomadi ed extracomunitari, che le hanno ormai adibite a dormitori ed a bagni pubblici a cielo aperto.

«In piazza della Vittoria  i nomadi si sono persino attrezzati con brande e coperte rinvenute nell'immondizia».

«Questa situazione degradante è però nota all'Amministrazione comunale. Già nell'aprile scorso l'Assessore al decoro, Massimo Mattei, nei suoi tanto fugaci quanto improvvisati sopralluoghi definiva la situazione di piazza Dalmazia come "problematica e bisognosa di interventi mirati" – proseguono Donzelli, Moretti e Castelnuovo Tedesco – senza che però nulla sia cambiato».

«Questi veri e propri "camping estivi" dei nomadi sono il simbolo di una città degradata, dove abusivismo, bivacchi e accattonaggio fanno da padroni durante la stagione calda. Il reparto antidegrado della Polizia Municipale, nonché gli invisibili "angeli del bello", rischiano davvero di divenire l'emblema dell'inefficacia della Giunta Renzi nella lotta alle zone degradate».

«L'assessore Mattei farebbe bene a mettere a punto una politica seria mirata alla qualità della vita – concludono Donzelli, Castelnuovo Tedesco e Moretti –, anziché fare stravaganti sopralluoghi dalla scarsa concretezza e dalla assoluta inefficacia, facendo sì che realtà come piazza Dalmazia e piazza della Vittoria siano quanto prima riportate al decoro. I fiorentini sono esausti del degrado».


Allegate 3 foto a riprova di quanto dichiarato

domenica 15 agosto 2010

Agosto 1944: Firenze e i franchi tiratori

Il sito dal quale è tratto il seguente articolo non è una pagina pregna di stancante reducismo e bieco revisionismo, bensì un centro di studio e documentazione sulla drammatica stagione della guerra civile. ( fonte: http://fondazionersi-roma.blogspot.com/ )

Marco della Redazione
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Curzio malaparte nell'ultimo momenti di vita dei "franchi tiratori" Fiorentini




" non trattero' la storia di Malaparte,ma da una sua testimonianza,dedichero' l'eroismo di alcuni giovani franchi tiratori di Mussolini,che catturati dalle formazioni partigiane ed esposti davanti alla folla fiorentina,sbeffeggiarono i loro catturandi,la folla e la morte che avveniva all'istante.Malaparte si trovo' lì,come corrispondente di guerra a seguito delle truppe anglo-americane,lasciando la sua testimonianza in un libro famoso dal titolo "la pelle".Infine si ringrazia F.Enrico accolla che grazie al suo libro "lotta su tre fronti" ne riporta l'eroismo di questi giovani fascisti.






Così Malaparte descriveva quella giornata fiorentina:


"I ragazzi seduti sui gradini di santa Maria novella,la piccola folla di curiosi raccolta intorno all'obelisco,l'ufficiale partigiano a cavalcioni dello sgabello ai piedi della scalinata della chiesa,coi gomiti appoggiati sul tavolino di ferro preso a qualche caffe' della piazza,la squadra di giovani partigiani della divisione comunista armati di mitra ed allineati sul sagrato davanti ai cadaveri distesi alla rinfusa l'uno sull'altro,parevano dipinti di masaccio nell'intonaco dell'aria grigia.Illuminati a picco dalla luce di gesso sporco che cadeva dal cielo nuvoloso,tutti tacevano,immoti,il viso rivolto tutti dalla stessa parte.


un filo di sangue colava giu' dagli scalini di marmo.










i fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni,dai capelli liberi sulla fronte alta,gli occhi neri e vivaci nel lungo volto pallido.Il piu' giovane,vestito di una maglia nera e di un paio di calzoncini corti che gli lasciavano nude le gambe degli stinchi magri,era quasi un bambino.


C'era anche una ragazza tra loro:giovanissima,nera d'occhi e dai capelli,sciolti sulle spalle,di quel biondo scuro che s'incontra spesso in toscana tra le donne del popolo,sedeva con il viso riverso,mirando le nuvole d'estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia,quel cielo pesante e generoso di qua e la' screpolato,simile ai cieli di masaccio sugli affreschi del Carmine...


l'ufficiale partigiano...tese il dito verso uno di quei ragazzi e disse:"tocca a te,come ti chiami?"."oggi tocca a me"-disse il ragazzo alzandosi,"ma un giorno o l'altro tocchera' a lei",-"come ti chiami?"-"mi chiamo come mi pare"-rispose il ragazzo-"o gli rispondi a fare a quel muso di bischero?" gli disse il suo compagno seduto accanto a lui.


"Gli rispondo per insegnarli l'educazione a quel coso!"-rispose il ragazzo,asciugandosi con il dorso della mano la fronte matida di sudore.Era pallido e gli tremavano le labbra.Ma rideva con aria spavalda guardando fisso l'ufficiale partigiano.


L'ufficiale abbasso la testa e si mise a giocherellare con una matita.Ad un tratto tutti i ragazzi presero a parlare fra di loro ridendo,parlavano con accento popolano di san Frediano,santa Croce,di Palazzolo.


"E quei bigherelloni che stanno a guardare?o non hanno mai visto ammazzare un cristiano?"-"e come si divertono quei mammalucchi!"-"li vorrei vedere vedere al nostro posto sicche' farebbero quei finocchiacci!"-"scommetto che si butterebbero' in ginocchio"-"li sentiresti strillare come maiali,poverini".


I ragazzi ridevano pallidissimi fissando le mani dell'ufficiale partigiano.


"Guardalo bellino,con quel fazzoletto rosso al collo"."o che gli e'?"-"o chi ha da essere:gli e' Garibaldi"-"quel che mi dispiace"-disse il ragazzo-"gli e' d'essere ammazzato da quei bucaioli!"-"un la far tanto lunga,moccione"-grido' uno dalla folla."se l'ha furia venga al mio posto"- ribatte' il ragazzo ficcandosi le mani in tasca.


L'ufficale partigiano alzo' la testa e disse:


"Fa presto!non mi far perdere tempo.Tocca a te.".-"se gli e' per non farle perdere tempo"-disse il ragazzo con voce di scerno-"mi sbrigo subito" e scavalcati i compagni ando' a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra,accanto al mucchio di cadaveri,proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.


"Bada di non sporcarti le scarpe!"-gli grido' uno dei suoi compagni;e tutti si misero a ridere...


il ragazzo grido':"viva Mussolini!" e cadde crivellato di colpi"


F.Enrico accolla conclude...


"la storia e' grata a Curzio Malaparte,antifascista,al seguito delle armate anglo-americane,per la testimonianza di tanto sprezzante coraggio da parte di quei "repubblichini".


anche io rimango impressionato per tanto coraggio,fierezza e affronto di questi giovani ragazzi,che Firenze non li volle piu’ in vita perche' erano dei vinti."



Tratto da www.libridecimrsi.blogspot.com

giovedì 12 agosto 2010

Comunicato stampa Giovane Italia/Azione Universitaria Firenze

Salve
in allegato(e di seguito) il comunicato stampa e le fotografie della manifestazione all' Aeroporto di Fiumicino contro il turismo pedofilo.
 
Distinti saluti
                                                                                                                                                                        
 
                     Matteo Fanelli
dirigente di Firenze
movimento politico universitario Azione Universitaria/Giovane Italia
tel: 333-6498516
 


GIOVANE ITALIA FIRENZE

 

 

 

COMUNICATO STAMPA

 
Azione Universitaria e Giovane Italia ( PdL) Firenze manifestano nell'Aeroporto di Fiumicino

 

 

"STOP AL TURISMO PEDOFILO – E SE QUEL BAMBINO FOSSI TU?" con questi slogan alcuni militanti di Giovane Italia Firenze, insieme a rappresentanze di altre città dello stesso movimento, hanno compiuto un blitz presso lo scalo internazionale di Fiumicino distribuendo volantini contro il fenomeno in aumento del turismo pedofilo in molte mete esotiche.

"Un paese che si dichiara civile non può permettere che nel mondo 10 milioni di minorenni, adolescenti ed addirittura bambini, siano costretti a trasformarsi in cavie per il piacere di adulti, spesso padri di famiglia o cittadini insospettabili, che pensano di poter soddisfare il proprio desiderio forti di una condizione di ricchezza e dall'impunità garantita da migliaia di chilometri di distanza da casa" dichiarano a margine della manifestazione Giovanni Donzelli, presidente nazionale di Azione Universitaria e consigliere regionale della Toscana e Cosimo Zecchi, dirigente nazionale toscano di Giovane Italia.

" Questo blitz estivo è un'azione simbolica che segna l'inizio di una serie di campagne territoriali e nazionali di Giovane Italia proprio sui diritti civili e contro la pedofilia e la per la difesa dei minori " affermano sempre Zecchi e Donzelli.

" Auspichiamo – aggiunge Matteo Fanelli, dirigente fiorentino del movimento giovanile del PDL  - che tutti i Governi prevedano pene più severe per chiunque si macchi del reato di pedofilia e che molte mete esotiche tornino ad essere dei paradisi terrestri per la bellezza dei propri mari e delle proprie culture millenarie e non più inferni terreni per quei milioni di bambini che oggi sono carne da macello per attirare turisti senza scrupoli"

martedì 10 agosto 2010

Berto Ricci: come fummo giovani allora (I Parte)

fonte: http://www.beppeniccolai.org


Berto Ricci è fiorentino, poeta, polemista, matematico, cade a Bir Gandula, Cirenaica, il 2 Febbraio 1941. Aveva 35 anni. In che cosa credeva? Nelle strutture politico-brurocratico-amministrative di cui è fatto uno Stato? Nel Palazzo, si direbbe oggi? Berto Ricci credeva nell’Italia, e per dirla con le parole di Dino Garrone, e che Berto Ricci mise nella sua prefazione alle lettere di Garrone stesso, scomparso anche lui giovanissimo all’età di ventisette anni, l’Italia la vedeva e la sognava così: «l’Italia dura, taciturna, sdegnosa, che portava la sua anima in salvo soffrendo delle contraffazioni, dei manifesti, dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati, dei commendatori. L’Italia che ci fa spesso bestemmiare perché la vorremmo più rigida, più attenta, più macra: vicino alla perfezione dei santi».
Dell’amico adorato, scrittore e poeta come lui, Berto Ricci tracciò questi lineamenti:




«Non cercò carriera, non ebbe fini effimeri, non comuni ambizioni. Ebbe vita interiore potente, soverchiante la esteriore pur così varia, popolata di fatti e di figure e accesa di passioni. Soffrì d’ogni menomazione inferta dalla debolezza propria o altrui (…) una coscienza senza sogno (…) un volere il sole, in sé e negli uomini il sole (…) un gioire e un soffrire coi paesi e con le acque, con la gente e i libri, con tutto quello che noi siamo (…) Il rispetto per l’uomo, la sua umiltà dinanzi al fratello ignoto e qualunque,così bella se guardata sullo sfondo della formidabile capacità di disprezzo che era in lui, dicono com’egli fosse alto e solo. Risultava da tutto questo, dall’amore, dal disdegno, dall’ingegno, dalla dominante e assillante pretesa d’assoluto, una magnetica giovinezza, di quelle che fanno esclamare: bella questa moneta nuova, e quanto val più dell’altre usate e tosate. E giovane è rimasto in morte, sull’invecchiare veloce di molti vivi».

Così Berto Ricci di Dino Garrone.



Potremmo scrivere: «così Berto Ricci di Berto Ricci».



La prefazione alle lettere di Dino Garrone è del ’38, ma Berto Ricci resta una colata di vita:



«E giovane è rimasto in morte, sull’invecchiare veloce di molti vivi».



Lo potremmo scrivere sulla tomba di Berto. E nessuno meglio di lui, a cui è toccata la sorte di vivere questa scettica e cinica Italia, sa e conosce la verità di quella frase: «e giovane è rimasto in morte sull’invecchiare veloce di molti vivi».
Berto Ricci fu un’intelligenza viva, libera, sanguigna, spregiudicata, strafottente e spavalda. Il suo foglio "l’Universale" è destinato a restare. Berto Ricci fu carattere, che altro non è che il coraggio civile. Berto Ricci, nel tempo di Mussolini e della sua dittatura, fu faziosamente, come può esserlo un fiorentino, controcorrente, contro, su ogni cosa, il moderatismo, i tecnici del saper vivere e del saper fare. Per dirla con termini della grigia politica di oggi, fu l’antidoroteo, fu l’antimoroteo per eccellenza.
In una sua poesia, "Inno a Roma" del ’33, è detto: «Oh i buoni servi non sono degni di Roma, non gli immoti e i pigri, ma i liberi, gli inquieti, quelli che simili a praterie che inarca il vento delle folli ambizioni».

«Pederasti e ladri», scriverà nel ’31 su "Lo scrittore italiano", «possono esser grandi d’arte, e furono i piccoli cercatori d’applausi, cacciatori di recensioni e di premi, romanzieri stipendiati dal pubblico, no in nessun modo. E se parrà enorme a qualcuno questa mia affermazione, da non poterla digerire, e’ se la sputi. Già ho notato la preminenza dello spirituale sul morale, della divinità sulla onestà: e con questo non vo’ dire che pederasti e ladri sono divini; ma più vicini a Dio, forse, dei frigidi astuti savi e delle canaglie moderate».
Più vicini a Dio dei frigidi savi e delle canaglie moderate…
Giugno 1931. Fascismo e Azione Cattolica si fronteggiano. Sono passati due anni dal Concordato. Motivo del contrasto: l’educazione dei giovani. Berto Ricci su "l’Universale" titola: "Il duello col Papa" e trancia questi giudizi:



«Diciamolo francamente: noi non ci spaventeremmo di un clero macchiato di lussuria, di simonia, di ferocia, quanto ci preoccupa questo esercito d’impiegati in tonaca, irrimediabilmente malati di mal borghese. È nel peccato una grandezza, un principio forse di santità: nell’inerzia dei borghesi e dei mediocri non c’è che buio».



«(…) Venga presto, per il bene della cristianità, un papa gagliardo, rivoluzionario, che sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi...





[incomprensibile, coperto dagli applausi]



..., lasci alle donnacole le polemichette puntigliose, riporti nel mondo l’alito del Vangelo, riceva sì i pellegrini d’America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere ed entri il vicario di Cristo nelle case di San Frediano».





C’è qualcuno nell’Italia democratica e repubblicana, uscita dalla Resistenza, che mi sappia indicare, da qualche parte, un polemista di questa vaglia, polemista, fatene caso, che così si esprimeva negli anni del diavolo del cavalier Benito Mussolini?





«Questo ci preme, questo vogliamo dire: questo nessuno può smentire, che gli eunuchi, i vili i pigliaschiaffi disonorano il fascismo, che i saggi in cappa magna lo inceppano, i noiosi teorici della tradizione gli fanno perdere tempo, gli adulatori lo avvelenano, i bruti spiritati dal gesto dittatorio e dagli occhi grifagni lo mettono in farsa, e l’Italia del popolo, l’Italia di Basso Porto e di via Toscanella, essa sola lo alimenta di vita, e questo non è classismo, non è bolscevismo, perché non importa essere nati in via Toscanella né starci. Quel che conta è saperci stare».



È il 12 Aprile 1931: la Spagna è repubblicana. Re Alfonso XIII, l’ultimo dei Borboni, lascia Madrid e prende la via dell’esilio. Su "l’Universale" del Maggio ’31, Berto Ricci scrive:



«Sommo errore politico, oltre che pessima romanticheria di maniaci del principio monarchico universale, sarebbe fare il broncio alla nuova Spagna repubblicana. Né i dogmi democratici dei successori di re Alfonso possono interessarci gran che: c’interessa la loro politica estera e la posizione del loro paese nel Mare Mediterraneo. Venendo poi a considerare in sé questo sbrigativo, ma atteso, invocato e guadagnato mutamento di regime, non si può dire che la monarchia sia stata molto benemerita di quella nazione. Che fruttarono alla Spagna i suoi secoli di obbedienza e di fedeltà al trono? Una lunga, atona agonia, una dittatura senza genio, un parlamentarismo senza sale, una lenta rovina di commerci e d’imprese. Ogni scossa è santa se giova a scuotere dal sonno e dall’ozio i popoli forti. D’altra parte i ribelli spagnoli hanno mostrato negli ultimi tempi di saper guardare in faccia con abbastanza tranquillità i plotoni d’esecuzione: e un’idea capace di preparare gli uomini alla morte merita vittoria, merita rispetto nell’Italia del comandante Umberto Maddalena». (maggio 1931)

[...]

venerdì 6 agosto 2010

Riprendiamoci (a destra) gli anni '60

Gli anni Sessanta? È arrivata l'ora del dietrofront. Vanno archiviati. Rimossi. L’offensiva revisionista stavolta parte da sinistra e gli spari già risuonano nel palinsesto televisivo. I primi caduti? La fiction Raccontami, epica pop dei Sessanta. Negli ultimi due anni ha messo a sedere – davanti al piccolo schermo, of course – le famiglie italiane. Eppure, sembra destinata a non sopravvivere alla fine della sua seconda stagione. Malgrado il successo di pubblico e nonostante le proteste. Truppe irregolari di telespettatori si stanno infatti mobilitando: migliaia di mail “marciano” sulla Rai. Un’intifada destinata a soccombere. Perché la decisione sembrerebbe – il condizionale è d’obbligo – presa. La famiglia Ferrucci (i protagonisti della serie in questione) sarà sciolta e i singoli interpreti destinati ad altre imprese televisive.




Prepariamoci pertanto a fare a meno di quest'ultimo romanzone popolare capace di “raccontare”, con piglio più cinematografico che meramente seriale, l’epopea di un paese che si lasciava definitivamente alle spalle il dramma della guerra e si proiettava a tutta velocità in un futuro ricco di cambiamenti e promesse. Non tutte mantenute. Ne sa qualcosa il capofamiglia Luciano Ferrucci. L’esplodere del conflitto l'aveva costretto a interrompere gli studi per poi farsi capocantiere per la ditta di un ex camerata. Potrà prendersi il sospirato diploma da geometra e inventarsi imprenditore ma i guai non mancheranno, né a lui né all’Italia. Un ruolo cucito a misura per il bravissimo Massimo Ghini, attore di sinistra – ci si passi il gioco di parole – poco amato, però, a sinistra. Già. Oggi come ieri c’è poca voglia di leggerezza, da quelle parti. L'ottimismo? Troppo destrorso, retorico. Tutto sommato, un po' berlusconiano.


E a puntare il dito contro «la sinistra snob» è lo stesso Ghini, reo di aver dato il volto – il suo – alla più recente commedia brillante italiana. «Dopo il primo film natalizio – si è sfogato in una intervista rilasciata al Corriere della Sera – sono stato considerato un traditore. Mi hanno persino chiesto se avessi cambiato idee politiche». Aveva due risposte possibili, ha spiegato: «La parolaccia o parliamone. Ho deciso di parlarne». A distanza di qualche giorno, però, il j’accuse di Ghini non ha ricevuto risposta e il futuro della fiction è ancora avvolto nel mistero. La verità – azzardiamo noi – è che qualcuno a sinistra si è forse reso conto che l'epopea degli anni Sessanta non era poi così funzionale alla celebrazione della loro parte politica e culturale. Malgrado Walter Veltroni e il suo immaginario, tutto anni Sessanta.


D'altronde da qualche tempo in giro c'è davvero tanta voglia di anni Sessanta. Ha detto Franco Battiato: «Le canzoni italiane degli anni '60 possedevano malinconia, ispirazione e felicità. Si veniva da una guerra devastante. E pur fra i problemi, c'era gioia di vivere». Non si tratta, quindi, solo del vintage che alimenta un sempre florido merchandising – dal ritorno dei dischi in vinile alle mitiche figurine Panini – ma dello spirito autentico dei Sessanta, recentemente riecheggiato anche nelle parole di Gianfranco Fini e individuato da Angela Merkel come decisivo per lo svilupparsi del boom economico tedesco e del modello di economia sociale di mercato. Tanti i lati positivi. Ne ha elencati alcuni il presidente della Camera nel convegno organizzato dalla fondazione Liberal di Ferdinando Adornato: «L'ottimismo, il desiderio di cambiamento nel costume, la rivolta generazionale e la partecipazione delle donne». Prima del trionfo delle ideologie e del tradimento di quelle speranze. Un’analisi lucida che sottolinea come, solo per l’incapacità della destra politica italiana di allora nell'ascoltare i giovani, si finì con lo spalancare un’autostrada all’egemonia della sinistra lasciando che prevalessero – per usare le parole della cancelliera tedesca – «le frange autoritarie e intolleranti del ’68».


L'ansia di cambiamento, da allora in poi, è stata raccontata come cosa loro e iscritta nell’immaginario della sinistra. Dai Beatles al Giovane Holden, da Charles Bukowski a Jim Morrison, ma anche Kennedy e Papa Giovanni, non c’è icona d’importazione che sia sfuggita a questa gigantesca mistificazione. Un equivoco colossale su cui nel corso degli anni si è sedimentata una memorialistica a senso unico. Un’appropriazione indebita che ha finito per trasformare una memoria condivisa nel patrimonio esclusivo di una sinistra immaginaria.


Tutto nasce con il libro, indubbiamente bello, Il sogno degli anni ’60 (edito da Savelli nel 1981) di Walter Veltroni, già allora abilissimo a confondere passioni private e generazionalmente trasversali con un’eredità politica di tutt’altra natura e storia. L’allora ventiseienne consigliere comunale – eletto a Roma nella lista del PCI – raccoglieva il ricordo di 46 ex giovani: da Renzo Arbore a Francesco Guccini, da Lucio Dalla a Gianni Borgna. Scriveva Veltroni: «Gli anni Sessanta sono stati un decennio di grande movimento, di rottura delle assolute certezze, della rigida immobilità dei Cinquanta. Un grande ribollire di stimoli culturali, di suggestioni politiche, di riferimenti letterari veramente nuovi... L’intreccio dell’accesso alla scuola di massa e dell’affermarsi del mezzo televisivo rivoluzionò la grammatica della fantasia di una generazione. Si dilatava la gamma delle conoscenze, si entrava in diretto rapporto con la realtà, si rompeva con il provincialismo un po' cafone dell’italietta anni Cinquanta...». E ancora: «Gli anni Sessanta. Un corsa in spider, una svedese al fianco, uno scherzo all’amico, una cotta improvvisa. Un viaggio, la scoperta di Londra o Parigi, un disco di Yellow Submarine. Un pattino, un ombrellone, un transistor acceso, una partita di pallone al tramonto. Una spiaggia tranquilla, un juke-boxe che suona, un po’ gracchiando, una canzone di Francoise Hardy». Peccato che questo quadretto idilliaco, di lì a qualche anno, venne fatto a pezzi proprio dalla sinistra con la pretesa di dare un segno ideologico a quella genuina ansia di cambiamento. A un vecchio conformismo ne subentrò un altro persino più intollerante che riduceva la rivolta generazionale a una banale questione di look e moschetto.


Ne sanno qualcosa i protagonisti musicali di quella stagione, coloro che ne hanno determinato la colonna sonora. Uno su tutti: Edoardo Vianello, i cui successi sono stati recentemente raccolti in Replay, un cd la cui copertina è stata affidata a Pablo Echaurren, genio eclettico oltre che vero e proprio fan di Vianello. E le sue canzoni allegre e frizzanti sono state – e continuano a essere, in barba al tempo che passa – il leitmotiv per eccellenza di intere generazioni di italiani, la benzina inesauribile dell’ottimismo contagioso dei Sessanta. Da Pinne fucili e occhiali a Guarda come dondolo, da Abbronzantissima ai mitici Watussi. Ecco, lui e la sua musica negli anni Settanta, il successivo decennio tutto plumbeo e tutto ideologico, venne messo al bando perché – sostenevano – le sue canzoni, in quanto leggere, scanzonate, vitaliste, andavano ritenute non impegnate, quindi superate. Proprio così. Se un cantante esprimeva l'ottimismo dei ragazzi del proprio tempo invece di mettersi al servizio delle cause della sinistra veniva iscritto d’ufficio nel registro dei renitenti. «Abituato com’ero al calore del pubblico ci rimasi malissimo – ci ha raccontato lo scorso giugno, in occasione del suo settantesimo compleanno – ma io intendevo la musica come un fatto di divertimento collettivo e come espressione dello stato d'animo generazionale, non come strumento per fare politica e non sarei mai stato credibile a improvvisarmi cantautore cosiddetto impegnato».


Analoga l'analisi di Don Backy, protagonista di una originale via italiana al beat e autore di canzoni cult come Poesia e L’immensità che – non a caso – insieme ad altre fanno da colonna sonora a Raccontami. Oltretutto Don Backy, insieme a Ricky Gianco e Detto Mariano, è l'autore del testo della stessa sigla della fiction riarrangiata da Vince Tempera. Ma lo spirito guascone, giovanilistico ed estetico dell’artista toscano era, in quegli anni, ben diverso da quello degli pseudorivoluzionari che affolleranno i cortei nel decennio successivo. «Io avevo ben altro per la testa – ci ha confidato – e Curcio, Capanna, Negri e nipotini vari volevano solamente andare al potere. Il nostro era un essere contro in ogni caso». Da allora la sua principale preoccupazione, come ha scritto nell’ultimo libro – Questa è la storia… Memorie di un juke box (Coniglio Editore, pp. 256, € 29, 50) – è di far sopravvivere lo spirito autentico di quegli anni, di salvare le sue canzoni dalla marea ideologica che montava a sinistra. «Le sue canzoni non ne furono contagiate – scrive in terza persona – la creatività non doveva essere gettata all’ammasso, circoscritta e in ostaggio di aggettivi: impegnata, di contestazione, di protesta o di convenienze e anticonformismi di maniera». E probabilmente per la schiettezza delle sue dichiarazioni Don Backy ancora oggi viene sistematicamente ignorato da un certo circuito mediatico. «Quando non si è allineati non si esiste per i salotti e gli ambienti che contano. Va avanti solo chi è omologato, chi ha le idee in linea». Per lui quasi nessun invito in tv. Neanche a trasmissioni dedicate alla musica degli anni ’60-’70 come Canzonissime, Ti lascio una canzone o I raccomandati. Figuriamoci il Festival di Sanremo, cui si è recentemente proposto per vedersi sbattere la porta in faccia da Pippo Baudo.


Intendiamoci, a ricevere tale trattamento non furono soltanto i cantanti ma tutti gli artisti che non vollero farsi allinearsi. Basti pensare a Franco e Ciccio, definiti dall’indimenticato Giuseppe Moccia, in arte Pipolo, «i rappresentanti per eccellenza dell’Italia prorompente, vitale e con voglia di fare degli anni Sessanta». La loro comicità schietta e contagiosa richiamava nelle sale adulti, ragazzi e bambini. Eppure la critica ideologizzata continuerà a considerarli poco più che fenomeni da baraccone. Tra le poche voci controcorrente, quella di Valerio Caprara: «Inutile aggiungere che meno amavo le isterie gauchistes (che, pure, hanno preso il potere nel campo dei sacerdoti della critica) più simpatizzavo con la morfologia artistica di Franchi e Ingrassia, la cui docta ignorantia mi sembrava di gran lunga più lucida della ignoranza tout court dei lanzichenecchi rossi e rosa di Cinecittà e dintorni. Il cinema ‘nobile’ era costituito, per costoro, da alcuni ignobili sottoprodotti gabellati per ‘ideologici’ e progressivi. Per fortuna il popolo (quello vero, quello che si esalta al Mundial e prende a pomodorate le reprimende dei sociologi) invertiva puntualmente i canoni del sotterraneo Minculpop e premiava gli sforzi autarchici, generosi, fisici dei due attori in barba agli appelli auto-mortificanti dei pretini sub-marxiani».


Comunque, ultimamente, sugli anni Sessanta – finalmente letti senza le lenti deformanti dell’ideologia – sono arrivati in libreria due saggi che meritano tutta l’attenzione possibile: il primo è Boom. Storia di quelli che hanno fatto il ’68 (Rizzoli, pp. 255, € 16,50) del sociologo Fausto Colombo e rompe un tabù: che a raccontare i Sessanta debbano necessariamente essere i militanti ideologici del decennio successivo. Perché esserselo perso è imperdonabile, anche per chi è nato troppo presto o troppo tardi. E Colombo, cinquantenne studioso dei media e docente all’università Cattolica di Milano, si prende la briga di affrontare con una scrittura godibile e ricca di aneddoti la storia dei baby boomers, un popolo di neonati che ha compiuto o sta per compiere cinquant’anni, dieci milioni di piccoli italiani che in quegli anni Sessanta reali cresceranno in case fornite di frigorifero, lavatrice e tv, imparando che dopo Carosello si va a nanna e che un giornalino e una partita di calcio possono fare la storia.


Già, il grande calcio che proprio in quegli anni diventa un fenomeno planetario e nel nostro Paese è passione diffusa, agisce da contagio e si fa moda, costume, immaginario condiviso. Ed ecco il secondo saggio, del milanese Marco Innocenti: Quando il calcio ci piaceva più delle ragazze (Mursia, pp. 240, € 18,00). È quanto accadeva negli anni Sessanta, perché i ragazzi studiavano, contestavano, s’innamoravano, ballavano, ma soprattutto impazzivano per lo sport nazionale e declamavano le formazioni delle squadre amate come versi di una poesia. E infatti il libro di Innocenti – giornalista del Sole 24 Ore e autore di altre pubblicazioni tra cui Sognando Meazza. Come eravamo negli anni Trenta (Mursia, 2006) – prima ancora che essere un omaggio al calcio, racconta meglio di qualsiasi testo sociologico la società italiana di quel decennio attraverso i miti e i riti sportivi che hanno segnato una generazione molto più dell'ideologia, spesso postuma. Fortunatamente. Leggiamo, quindi, quelle pagine e torniamo a riprenderci i nostri - e veri - anni Sessanta.






Fonte: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/2009/01/riprendiamoci-destra-gli-anni-60.html

giovedì 5 agosto 2010

TINTO BRASS TORNA ALL'ORIGINE DU MONDE

tratto da: www.nocturno.it (rivista cinematografica) - di Manlio Gomarasca


Tinto Brass ci parla del suo corto, Hotel Courbet, presentato all'ultima Mostra del Cinema di Venezia...


Non troppo tempo fa su Nocturno abbiamo dato notizia del tuo ultimo cortometraggio, Kick the Cock, presentato a Venezia Off. Oggi siamo qui per presentare un altro tuo corto, Hotel Courbet, realizzato questa volta per Sky…


Come dice il titolo stesso è un omaggio a Gustave Courbet e al suo L’origine du monde. L’ho fatto per il canale Fox di Sky. È come sempre all’apparenza una cosa senza senso e invece io lo trovo molto gratificante e molto bello. È la storia di una ragazza con delle manie compulsive, compra cose... che rievoca una torrida avventura parigina con un ragazzo francese in questo Hotel Courbet sotto l’impronta del famoso quadro.


C’è anche un omaggio molto bello a La camera azzurra di Simenon, con lei a gambe aperte e un filo di sperma che le esce dalla fica e la mosca che le si appoggia sopra. Ho fatto delle foto grandiose, sono quelle che ti ho mandato, impubblicabili per altri che non siano Nocturno…


Comunque, la storia col francese finisce male, lui la molla, le dice di tornare in Italia e lei rimane sola in questa stanza piena di ricordi che erano stati suggeriti dal fatto che lei si provava i vestiti di fronte alla toilette, mettendosi la crema detergente sul viso, e pian piano trasformandosi in una specie di Pierrot, di clown. Sfinita, si butta sul letto, culo per aria e faccia sotto, ed entra un ladro. Il ladro si aggira in questa stanza, ruba delle cose e poi si accorge di questo bellissimo culo sul letto. Per un attimo è indeciso e si dice: «cosa faccio? Rubare o violare?». Preferisce rubare. Però casca un gioiello e lei, sentendo il rumore, si sveglia dal torpore e comincia a masturbarsi per scacciare il magone erotico che aveva… Una bellissima masturbazione consumata sotto gli occhi del ladro nascosto. Il ladro scappa, ma tra le cose che ha rubato c’è pure una fotografia della ragazza nuda in una cornice d’argento. Tentato da quest’ immagine torna indietro e suona il campanello. Appare la ragazza con una bella vestaglia rossa, la stessa che aveva nella fotografia, e lui le dice una battuta in stile scespiriano: «la bellezza tenta il ladro più dell’oro», un po’ alla “As you like it” – “Come vi pare”. Ma lei sorridendo gli prende il sigaro, se lo mette in bocca, e dice: «Ma non si può rubare», e se ne va. Poi appaio io in fondo alla macchina da presa e dico una battuta di Picasso a proposito del quadro di Courbet: «L’arte non è mai casta; se lo è non è arte!».






Parliamo degli attori…


La ragazza è Caterina Varzi, la protagonista che avevo scelto per Ziva, il prossimo film che voglio fare e di cui ti ho già parlato nella precedente intervista. Una vera rivelazione, non tanto per il corpo ma per l’intensità – per dirla come dicono i francesi – tragedienne, che sta a significare non la tragedia ma proprio lo sguardo intenso, difficile da reggere. Nella parte dell’amante francese, invece, ho inserito una chicca scandalosa, suo fratello Vincenzo Varzi, e poi un certo Alberto Petrolini, che fa il ladro ed è un playboy notturno, un giocatore di poker di Parma che conoscevo da anni.






E dove l’hai girato?


L’ho girato a Bassano Romano. La stanza della ragazza che si spoglia, si rimette i vestiti e si masturba, in una bella villa di Bassano, mentre in teatro ho ricostruito la camera azzurra con la scritta fuori dalla finestra “Hotel Courbet”.






Quindi dovrebbe rientrare in un progetto di Sky?


Che si chiama “Il favoloso mondo di Tinto Brass”; l’immagine è il culo di una donna con impresso il mappamondo. Questo è il pilot della serie che dovrebbe essere composta da sei o dodici episodi diretti tutti da me. Ce ne sono alcuni bellissimi, uno che riguarda D’Annunzio, la vigilia della partenza per Fiume, quando aspetta questa sua fan che deve venirlo a trovare. Hotel Courbet lo voglio mandare anche a Cannes nella sezione dei corti ma devo ridurlo a 15’.










Come ti trovi all’interno della dimensione del cortometraggio?


Bene, mi diverto molto a farli. Apparentemente sono cose senza senso, invece queste antologie ti permettono di sperimentare molto di più di quando fai un film, perché non sei legato ad un unico discorso di un’ora e mezza, puoi provare una cosa, cambiarla, e poi possono essere raccolte in antologia. Volendo possono diventare film a episodi da pubblicare in DVD. Poi, adesso, nell’impossibilità di girare un film come vorrei, da Ziva o Vertigini, un film sull’eutanasia che in questo momento sarebbe attualissimo dopo tutte le puttanate che abbiamo sentito a proposito di Eluana. Hai visto cosa ha fatto Vanessa Redgrave? Due giorni dopo che la figlia aveva battuto la testa è andata in America e ha staccato la spina. Queste sono cose dignitose, umane, non queste chiacchiere che riempiono i televisori e basta! Quando studiavo si parlava di quello che era importante: Virgilio e la pietas. La “pietas” dei latini non sanno più che cos’è, questa stava in coma da sette anni, ma la pietas per questa persona, cazzo, dove la mettiamo?






Che fine ha fatto il progetto DNA?


Il progetto è sempre quello che avete pubblicato su Nocturno nel Dossier a me dedicato. Ora lo voglio fare con Franco Branciaroli a teatro. In scena ci sono solo tre personaggi. C’è T che è rinchiuso in manicomio e vive una vita immaginaria più reale della vita vera attraverso l’esercizio costante della masturbazione. Questo si masturba, e masturbandosi evade dalla sua condizione di recluso in manicomio, dalla logica, dalle regole e dalla morale. Gli altri personaggi sono la Donna, che rientra in tutte le sue epifanie: la puttana, la crocerossina, la suora ecc., e che in realtà è la madre. Tutte figure interpretate da un’unica attrice. E poi c’è il direttore del manicomio, nonché il padre che vorrei fare interpretare a un nano. La figura del nano è una figura alla quale sono molto legato e ho spesso usato nei miei film, perché è l’elemento surrealista per eccellenza, magico e al di fuori degli schemi.






Quando vorresti rappresentarla?


Inizialmente si trattava di fare un teatro cinetico, visto che ci troviamo in un periodo di futuristi, con delle scene in teatro, che sono tutte quelle della cella e del manicomio, e tutte le “epifanie” da girare a parte in HD e poi proiettarle su una retina che cali sul proscenio. Il progetto lo avevo presentato a Spoleto. Gli avrei portato Branciaroli, il più grande attore teatrale, ma questi stronzi sono andati a prendere Woody Allen per fare una cagata che hanno pagato a peso d’oro… Poi dicono che non hanno più soldi. Ma come? Vi porto uno spettacolo molto interessante con Franco Branciaroli, un omaggio al futurismo… era un evento vero. Ma andate a cagare! Allora sto cercando di farlo direttamente per il DVD senza il teatro. Del resto ormai in tutto il mondo i fatturati veri arrivano dall’home video. La sala non esiste più.

mercoledì 4 agosto 2010

http://www.youtube.com/watch?v=c_AZ8B_UhcM

Ecce Homo: Gianfranco Fini. Ascesa e declino di un tartufo

Articolo tratto da Heliodromos n. 22







Diversi ambienti della destra politica ma non soltanto questi, dato che i comportamenti “evolutivi” hanno assunto aspetti paradossalmente scandalosi, sono rimasti perplessi e amareggiati per i disinvolti riposizionamenti politici di Gianfranco Fini. Tanti generosi militanti d’ogni età hanno rivissuto le disillusioni, che notoriamente i politici del nostro tempo danno a quanti mal pongono fiducia e attese per un autentico rinnovamento di questo nostro paese. Nel caso di Fini bisognava possedere una buona dose d’ingenuità, per aspettarsi mete ideali da chi, per naturale inclinazione, ha sempre seguito, e inseguito, eventi politici e personali concordanti esclusivamente con i suoi limiti culturali e la sua sfrenata ambizione. Sotto quest’aspetto, quello che differenzia Fini da un rozzo avventuriero della politica come Antonio Di Pietro è il modo felpato e circospetto delle sue scelte. Ripercorrendo alcune delle tappe più indicative della sua fortunata ascesa politica, è difficile ritrovare suoi personali contributi di originalità e spessore politico, il suo successo lo ha costruito con cauta scaltrezza seguendo le orme di personaggi politicamente molto più dotati di lui. Con il sostegno di Almirante, malgrado Fini fosse per consensi il quarto degli eletti nella direzione del Fronte della Gioventù, diventa segretario giovanile e, in seguito, erede designatoalla segreteria del M.S.I. La svolta politica realizzatesi con il passaggio del M.S.I. in A.N. è stata culturalmente concepita dal prof. Fisichella e politicamente e organicamente realizzata da Giuseppe Tatarella; Fini ne divenne il segretario perché, essendo culturalmente neutro, come ebbe a dire lo stesso Tatarella (cfr. Heliodromos N. 17), sembrò la persona tollerabile dalle diverse anime culturali confluite nel nuovo partito; al seguito e sulle orme di Berlusconi, infine, realizza il massimo della sua scalata politica, diventando nel 2001 vicepresidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli Esteri e poi ancora, con le ultime elezioni del 2008, sempre al seguito di Berlusconi, presidente della Camera dei deputati. Anche le sue vicende personali non brillano per trasparenza e lealtà. Daniela Di Sotto, la sua prima moglie, ha dichiarato di aver subito l’umiliazione di apprendere dai giornali la decisione di Fini di avviare un nuovo rapporto con l’attuale compagna. Sergio Mariani, il primo marito di Daniela, in una intervista , insieme ad una serie di penose vicissitudini che lo indussero a tentare il suicidio, dice: “Vivevamo insieme sotto lo stesso tetto, ma Daniela e Gianfranco avevano cominciato una relazione clandestina nella casa di una dipendente del Secolo”, … “Se Daniela quando eravamo ancora sposati si è innamorata di Fini non ha nessuna colpa, il sentimento non si può gestire. Il problema non sta nel tradimento dell’amore, ma nell’errore di Fini: il tradimento dell’amicizia, di un vincolo di comunità”.


Considerando nell’insieme l’ascesa politica di Fini e le modalità con cui si sono svolte le sue vicende personali, ci viene da pensare ad una delle commedie più ardite di Molière, nella quale l’autore con vigore esprime la reazione di una visione sana ed equilibrata della vita contro ogni deformazione ipocrita e interessata. Il commediografo francese, con un abile gioco linguistico fra la sua lingua e quella italiana, intitola questa sua commedia Tartufe, il nome che noi diamo al tubero che cresce sotterraneo, sotto intendendo però che questo parassita nella sua lingua è indicato con il termine Truffe, che, a sua volta, foneticamente rimanda al senso fortemente negativo che ha nella lingua italiana. Com’è noto Molière in questa sua commedia ci traccia la figura di un essere che con fare compunto e servizievole riesce a farsi accettare da una famiglia perbene, a divenire il consigliere ascoltato, finché con le sue arti fa diseredare il figlio, si fa promettere dal suo protettore la figlia e la dote, e poi tenta di fare arrestare quello stesso a cui tutto deve. È l’immagine universale dell’impostore senza scrupoli, che maschera con arte il suo cinismo. In realtà il comportamento di Tartufo si rispecchia molto nel comportamento di Fini all’interno d’AN e nel rapporto con Berlusconi. Dopo la morte di Tatarella, l’unico fra i maggiori dirigenti di quel partito che potesse tenerlo in soggezione, conoscendone i limiti e i vizi, Fini inizia a sfogliare come un carciofo AN da tutti quelli che per qualità personali e senso d’autonoma dignità potessero tenerlo in ombra. Il primo a soccombere è lo stesso cofondatore d’AN, il prof. Fisichella, il quale abbandona il partito non sentendosi sostenuto, avendone i titoli culturali, nelle sue legittime aspirazioni istituzionali che invece Fini, con l’indispensabile sostegno di Berlusconi, rimette a se stesso.


Utilizzando in maniera cinica e consueta questo metodo di mettere all’angolo per costringere a lasciare, e sbarrando senza preavviso e d’autorità le candidature degli uomini di maggiore rilievo politico e consenso elettorale, egli ha disboscato il partito dalle migliori risorse umane, solo in Sicilia, fra i tanti, il senatore Vito Cusimano, l’on Enzo Trantino, l’on. Enzo Fragalà, l’on. Nello Musumeci; sono veramente tante le persone con alle spalle una lunga storia d’impegno e di servizio ideale che sono stati emarginati da Fini, perché ingombranti rispetto alla sua pochezza politica e alla sua sfrenata ambizione. Ha colto nel segno quel nobiluomo del prof. Silverio Bacci, quando lo ha definito: “un piazzista falso ed intrigante dentro il nostro mondo… uomo senza anima”. (Orientamenti, n. 1-2. a. VI, Roma 2003).


Eliminati dal partito gli arbusti, sono rimasti i cespugli, gente senza alcun merito, uomini cavi e servizievoli, come Urso e Ronchi; questo ultimo difatti ha toccato il ridicolo dichiarando: “Lealtà e onestà intellettuale sono il dato caratteriale di Gianfranco Fini” (Il Giornale, 14 aprile 2010). Completano le forze finiane le tre marie, Carmelo Briguglio, Italo Bocchino e Fabio Granata, i quali, posti politicamente da lui in posizioni molto sopra delle loro reali capacità, rappresentano nello stesso tempo la forza apparente e la debolezza reale di Fini; Fabio Granata, addirittura, preso dalle vertigini per le posizioni raggiunte sotto la protezione di Fini, ha perso il senso del limite, tanto da anticipare una sua “eventuale” candidatura a governatore della Sicilia (sic!).


Dal neofascismo al neo-antifascismo


La società moderna è caratterizzata da una innegabile chiusura individualistica ed egocentrica, e da un’insensata spinta al cambiamento, che spesso pone le persone che lavorano a inumane leggi di mercato, facendole trasmigrare da un’attività lavorativa all’altra, con conseguenze non semplici di adattamento psicologico e tecnico, superabili solo in forza della necessità di sopravvivenza. Ebbene – ci chiediamo -, se nel passaggio da un impiego lavorativo all’altro s’incontrano sofferenze e disagi, pur trattandosi di aggiornare competenze operative e atteggiamenti mentali, com’è possibile modificare radicalmente idee costruite in conformità ad una visione della vita e del mondo, elaborate negli anni mediante studi, riflessioni ed esperienze culturali che coinvolgono gli aspetti più intimi dell’essere? In questo mondo moderno senza fede e principi, non ci stupiamo se si assiste addirittura a tentativi di “nobilitare” la labilità e superficialità del più ignobile trasformismo culturale e politico. Per esempio, l’ex comunista Giuliano Ferrara ha giustificato le sue attuali posizioni liberali dicendo: “Solo gli imbecilli non cambiano idea”; a lui si potrebbe rispondere con un più saggio detto orientale: “Niente di più stupido di un uomo intelligente”, ma preferiamo essere meno sbrigativi. Egli da razionalista qual è, non si rende conto dell’irrazionalità della sua proposizione giustificativa; un razionalista intelligente dovrebbe avere idee così razionalmente fondate da non consentirgli ripensamenti, oppure è così imbecille da non sapere elaborare i processi cognitivi in maniera “chiara e distinta” come gli suggerisce il suo Cartesio. Nel caso di Fini abbiamo assistito ad un trasformismo tanto spudorato quanto ottuso, e per lui, in fondo, com’è già evidente, la causa del suo inarrestabile declino. Già Craxi, il quale si era reso ben conto che il cosiddetto arco costituzionale era un artificio politico del P.C.I. avviò una prima fase dello sdoganamento del M.S.I. Fini, seguendo la sua congenita attitudine all’ingratitudine mista alla sua pochezza politica, gli diede il ben servito e assecondò demagogicamente il giustizialismo di “mani pulite”, incapace di capire chi politicamente n’avrebbe tratto profitto. Nonostante la sua miopia politica, Fini ebbe la fortuna della discesa in campo di Silvio Berlusconi che completò il processo di sdoganamento e lo fece, conseguentemente, crescere elettoralmente. Mentre maturava, finalmente, una duplice legittimazione politico- culturale, in virtù di vari studi, come quelli di Renzo De Felice e della sua scuola e di onesti lavori revisionisti come, fra i tanti, quelli di Gianpaolo Pansa, cioè, mentre si indeboliva l’antifascismo ideologico e strumentale, per avere spazio nel dibattito culturale un più attento, sebbene critico, giudizio storico sul fascismo, Fini nel novembre 2003, dopo quattro anni di sollecitazioni nell’anticamera, compie il suo viaggio in Israele. Da lì, passando compiaciuto sotto le forche caudine dell’estremismo sionista di Sharon, apre con le sue indecorose e vili dichiarazioni la fase di rifondazione di un neo antifascismo ancora più immotivato e acido del precedente. Per lui si può ben citare, e qui lo facciamo opportunamente, Ezra Pound: “Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale nulla lui”. L’affermazione secondo la quale la R.S.I. è da includere nelle “pagine vergognose della storia”, non solo, resterà per sempre il suo marchio squalificante, ma la più ignobile delle espressioni verso i combattenti e i tanti giovani che con il loro estremo sacrificio riscattarono l’onore di questa italietta.


Ci sono vari aspetti del fascismo che vanno rivisti alla luce di un giudizio serio e severo, ma la R.S.I. resta l’evento più indicativo, più doloroso e nello stesso tempo più fulgido della nostra storia; senza il riscatto dell’onore, l’ombra dell’infamia e del tradimento avrebbe accompagnato gli italiani che antepongono la dignità all’opportunità. Francesco Cossiga, che certo non è privo d’esperienza politica e di fiuto per le “qualità” umane, dice di Fini che “non potrebbe amministrare neppure un condominio di quattro appartamenti” e poi precisa: “È il preferito dal centrosinistra per come si è schierato sul caso Englaro, se non si è circonciso, mentalmente lo è, manca solo che si iscriva all’Associazione partigiani” (Ansa 11/03/2009). Una verifica di questa circoncisione mentale l’abbiamo avuta appena qualche mese addietro, quando Fini ha dichiarato, con l’entusiasmo del neofita, che bisogna perseguire non soltanto l’antisemitismo ma anche l’antisionismo, perché dietro di esso si cela il pregiudizio razziale. Anche qui riemerge la sua povertà culturale. Fini evidentemente non conosce le posizioni di moltissimi ebrei ortodossi, i quali sono in prima linea nel sostenere quanto il sionismo contribuisca ad alimentare l’antiebraismo. Purtroppo con Fini siamo di fronte a un essere non solo senza cultura e senza anima, ma anche arrogante, invidioso, vendicativo e opportunista. È proprio vero che ciò che un essere è potenzialmente alla nascita, egli continuerà ad essere lungo il corso della sua esistenza individuale; ognuno secondo la propria natura. Sono queste convinzioni che ci fanno auspicare un suo declino politico, perché abbiamo ben chiaro che un essere di tal specie nocerebbe al Paese e alle istituzioni, come ha nuociuto al partito e agli uomini che lo avevano accolto. Ritornando all’immagine di Tartufo, non possiamo non completarla con un adagio assai esplicito: “Nell’oscurità, il pidocchio è peggio di una tigre”, ma alla luce del giorno – aggiungiamo noi – un pidocchio è solo un pidocchio.

Colonialismo in noir, torna il maggiore Morosini, creatura letteraria di Giorgio Ballario

  Torna, a grande richiesta, l’epopea coloniale in tinta noir. E il quarantenne Aldo Morosini, maggiore dei carabinieri in servizio nell’Eritrea italiana, si appresta a una seconda indagine. La creatura letteraria del torinese Giorgio Ballario non avrà raggiunto la popolarità di un “collega” celebrato come il commissario Montalbano ma si è già conquistata – a colpi di passaparola – una folta e appassionata schiera di lettori. Se nel romanzo d’esordio, Morire è un attimo (Angolo Manzoni, 2008) – tra i libri più votati dalla giuria popolare nell’ultima edizione del premio Scerbanenco – ha risolto brillantemente un caso di duplice omicidio a Massaua, delitti sbrigativamente addebitati agli agenti del Negus, in Una donna di troppo (la cui uscita è prevista ad aprile, sempre per la piccola casa editrice piemontese) Morosini sarà chiamato a Mogadiscio per misurarsi con morti altrettanto misteriose che rendono ancora più pesante il clima di avvicinamento all’offensiva militare nei confronti dell’Abissinia. Sì, perché il nuovo romanzo è ambientato nell’estate del 1935, appena pochi mesi dopo rispetto al precedente e nell’imminenza dello scoppio delle ostilità. Ed ecco che tra i personaggi spunta colui che guiderà le operazioni militari, Rodolfo Graziani, tanto inviso alle alte sfere militari quanto apprezzato dal duce.  
Sarà lo stesso Benito Mussolini a scrivere di proprio pugno la prefazione di Fronte Sud, l’autobiografia di Rodolfo Graziani (Mondadori, 1938), “bestseller” dell’epoca utilizzato dall’autore come preziosa fonte documentale.  
Pur trattandosi di un’opera di fantasia, infatti, la narrazione è sapientemente intrecciata con le vicende storiche e l’ambientazione risulta impeccabile. Il porto di Massaua, solitamente indolente e sonnacchioso, brulicante di nuovi arrivi. I commerci che si intensificano. La vita che si anima con spettacoli, riviste e concerti direttamente provenienti dai cartelloni dei teatri italiani. Il microambiente familiare che si ricrea in terra eritrea: il cinema Impero, l’albergo Savoia, il ristorante Mario, i piccoli caffè di piazza Garibaldi – non a caso i garibaldini votarono a favore della guerra – le case di tolleranza gestite da maitresses italiane e i bordelli indigeni.  
Sembra quasi di essersi. Insieme a Morosini attraversiamo l’infernale deserto della Dancalia, i rigogliosi altopiani di Cheren e Asmara, l’antica città di Adùli, la capitale, uno dei centri più all’avanguardia dell’intera Africa con le sue strade vivaci, le ville eleganti e i nuovi quartieri in costruzione che sostituiscono le baracche in legno e lamiera. Una città trasformata in un enorme cantiere. Uno sviluppo urbanistico che investe l’intera regione e che è stato conservato con cura negli anni a seguire. «Si costruivano strade e ponti, si ampliavano le linee ferroviarie, si attrezzavano i vecchi porticcioli sul mar Rosso. Interi villaggi – racconta Ballario nell’opera prima – venivano su dall’oggi al domani. C’era del vero nella propaganda del Duce».

 Tanti connazionali, nati e cresciuti nell’Africa italiana, intervenuti alle presentazioni di Morire è un attimo a Roma, Firenze, Milano e Torino, hanno testimoniato la bontà della ricostruzione dell’autore. Senza velleità revisionistiche, Ballario – classe ’64, collaboratore negli anni Ottanta di Diorama Letterario ed Elementi, poi redattore a L’Indipendente e al Borghese e attualmente in forza alla Stampa – demolisce i tanti luoghi comuni che rappresentano il nostro colonialismo come straccione, predatorio e razzista e contribuisce a far conoscere un’esperienza che appartiene a pieno titolo alla nostra memoria collettiva, eppure studiata poco e male nelle scuole, dimenticata, per non dire rimossa, dalla cultura nazionale, dalla letteratura come dal cinema.

 Un vero peccato, perché attraverso romanzi e film sarebbe stato senz’altro più facile raccontare un fenomeno che ha avuto una forte valenza sociale, trattandosi di una grande emigrazione di persone che in Italia non avevano neanche visto il mare e improvvisamente si trovavano catapultati in una realtà sconosciuta. Migliaia di italiani inebriati dalla suggestione di una nuova vita: una pagina bianca da scrivere o il necessario completamento di quella scritta in patria. Un’umanità variopinta descritta mirabilmente da Ballario in Morire è un attimo: «Giovani di belle speranze, padri di famiglia in cerca di un salario migliore, impiegati pubblici desiderosi di far carriera, militari ambiziosi o in punizione, commercianti dinamici e mercanti senza scrupoli, industriali geniali o con gli amici giusti a Roma, missionari coraggiosi e pretini incapaci, spediti a farsi le ossa in Africa. E ancora avventurieri di ogni risma, sognatori romantici, universitari dei Guf sbarcati in Eritrea per rifondare l’Impero, facinorosi alla ricerca di un sistema legale per menare le mani, idealisti e donne di facili costumi, ragazze di buona famiglia in cerca di marito e papponi, teorici dell’uomo nuovo fascista e insegnanti precari alla caccia di una qualsiasi cattedra». 
Morosini non appartiene a nessuna di queste categorie in particolare. Non è stata l’ambizione a portarlo nel continente nero, né un accentuato spirito di avventura. Non è il colonialista becero animato da spirito “civilizzatore”, né tantomeno un supereroe. È una persona normale che cerca di fare il suo dovere ma ben lontano dallo stereotipo dell’ufficiale tutto d’un pezzo. Al contrario, vacilla di fronte all’improvvisa comparizione di una sua ex fiamma, l’attrice Virginia Mariani in tournée nell’Africa italiana, e cerca risposte nel De brevitate vitae di Seneca. Fa suo l’invito del filosofo latino a non perdere tempo, a non correre il rischio di sprecare la vita nel lusso e nell’indifferenza. Perché – come recita il titolo del libro – morire è un attimo e bisogna farsi trovare pronti. «Come puoi ritenere che abbia molto navigato uno che una violenta tempesta ha sorpreso fuori dal porto e lo ha sbattuto di qua e di là, e lo ha fatto girare in tondo entro lo stesso spazio, in balia di venti che soffiano da direzioni opposte? Non ha navigato molto, ma è stato sballottato molto». 
Accanto a lui, nel primo come nel secondo romanzo, due personaggi altrettanto importanti: il fedele sottoufficiale Barbagallo e Tesfaghì, lo sciumbasci, il graduato delle truppe indigene. Un ruolo, quello degli Zaptiè, sin troppo trascurato dalla storiografia ufficiale. Eppure il loro attaccamento alla bandiera italiana è spesso e volentieri maggiore di quello degli italiani stessi. «Signor maggiore – spiega Tesfaghì – io non istruito e non capire molto di quello che voi bianchi chiamare politica. Io capire solo cose concrete, di tutti i giorni. Da molti anni io soldato del re d’Italia, come già mio padre. Ricevo buona paga e sono rispettato. Mia moglie compra mangiare tutti giorni e figli piccolini vanno a scuola e ricevere buon vaccino per malattie. Una volta non così. E pure adesso, per popoli vicini, non così. Se io nascevo più in là, in regno Negus, forse adesso schiavo di ras e i miei figli morire di fame». Una considerazione quanto mai attuale.

 
fonte: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

Cultura&Spettacolo - Summer Jamboree

Cultura - A chi Mazzini? A noi!

Mai, come durante il Fascismo, nell’Italia post-unitaria, venne celebrata la figura di Giuseppe Mazzini. Caduto il regime mussoliniano, il ricordo del patriota tornò a far bella mostra di sé, fra le pagine ingiallite dei manuali scolastici; evidentemente, il patriottismo, non solo era estraneo alla neo-nata repubblica italiana, ma si prestava anche a pericolose collusioni con quella che era stata la cultura politica del ventennio.
La tradizione risorgimentale si protrarrà per tutti gli anni del regime fascista e rivivrà, idealmente, durante l’epopea della Repubblica Sociale. Fra i primi ad ufficializzare l’ascendenza mazziniana del Fascismo, Giovanni Gentile che , ne Il Manifesto degli intellettuali fascisti, scrisse: «ma non era neanche lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl’individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli Italiani, dopo aver dato loro l’indipendenza e l’unità. Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch’esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del ‘31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante! E cominciò a essere, come la “Giovane Italia” mazziniana, la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e ri-plasmare in conformità del nuovo ideale ardente e intransigente». Intransigenza, appunto, ereditata dagli esponenti del sindacalismo, rivoluzionario prima e, non a caso, (mazzinianamente) nazionale poi.
Saranno, infatti, gli uomini provenienti dall’esperienza sindacal-rivoluzionaria, a ri-portare in auge il mito di Mazzini: Angelo Oliviero Olivetti, Sergio Panunzio, Arturo Labriola, Filippo Corridoni, sono stati i più attivi promotori della rinascita risorgimentale. Partendo dal concetto di Risorgimento tradito, i teorici del sindacalismo concepivano la rivoluzione patriottica dell’800, come antesignana del Fascismo e, ancor prima, del sindacalismo interventista di matrice soreliana. In tal senso, utile a comprendere il trait d’union fra Risorgimento e Fascismo, è l’intervento del cantimoriano Roberto Pertici: « ll fascismo era considerato il compimento della rivoluzione nazionale iniziatasi con il Risorgimento, che doveva riuscire dove il processo risorgimentale e il cinquantennio successivo avevano fallito: nell’inserimento e nell’integrazione delle masse nello stato nazionale, nella creazione di una più vera democrazia, ben diversa dal parlamentarismo e lontana dall’affarismo, dal particolarismo, dall’inerzia che avevano caratterizzato l’Italia liberale. » Particolare importanza, all’interno del processo di ri-pensamento mazziniano, fu proprio la mobilitazione delle masse e, quindi, la partecipazione dei citoyens alla vita politica ed economica nazionale. In quest’ottica, si situa tutta la polemica sul corporativismo, soprattutto quello integrale teorizzato dal repubblicano Edmondo Rossoni e ri-preso, poi, da Ugo Spirito. La proposta corporativa di Rossoni, infatti, se non fosse stata stroncata da Confindustria, avrebbe rappresentato la perfetta sintesi fra, il pensiero economico mazziniano e le istanze politiche del nascente regime Fascista. Come ha ben delineato Luca Leonello Rimbotti, l’esito di tale politica avrebbe significato: «togliere dalle mani della borghesia la nazione e lo stesso imperialismo – come ad esempio faceva Corradini » Quindi: « sostituire alle oligarchie del denaro le aristocrazie di comando della politica, attinte dall’intero bacino del popolo. E queste, a differenza di quelle, provenivano da tutto il popolo, erano tutto il popolo, e non soltanto la sua minoranza capitalista o la sua minoranza operaista: l’una e l’altra, se prese isolatamente, ugualmente dedite all’esclusivo calcolo utilitario di classe». Una visione politica, quella di diretta filiazione risorgimentale, nata con Mazzini e sviluppatasi all’interno della tradizione italiana del socialismo non-marxista; non a caso, l’intera struttura economica dell’inter-classismo mazziniano, sarà l’asse portante, seppur con molte varianti, di quella che viene definita la sinistra fascista. Non fu, comunque, solo l’ala sinistra del fascismo, a essere influenzata da tali principi, come ha sottolineato lo storico Pierre Milza, lo stesso Mussolini non era affatto estraneo a tale tradizione, anzi: «egli stesso era il prodotto di una cultura politica che mescolava la tradizione mazziniana e libertaria, fortemente radicata in Romagna, con i principi di un socialismo intransigente».
Da rilevare, dal punto di vista storiografico, è che la popolarità di Mazzini, durante il periodo fascista, fu dovuta anche ai numerosi repubblicani che confluirono nei Fasci di Combattimento. Da sempre in conflitto con i socialisti riformisti, i repubblicani iniziarono il loro percorso di avvicinamento a Mussolini, proprio durante le battaglie interventiste; dapprima, sposando la causa dei sindacalisti rivoluzionari e, poi, appoggiando il primigenio movimento fascista, con cui condividevano diversi punti programmatici. Per meglio comprendere tale commistione, è utile rileggere le pagine dell’allora stampa repubblicana e, quindi, ciò che i mazziniani, di dichiarata fede, pensavano del nascente Fascismo e del suo capo. Nel ’17, sulle pagine de L’Iniziativa, l’organo di stampa del PRI, si guardava a Mussolini come al «magnifico bardo del nostro interventismo». Successivamente, soprattutto dal ’19 in poi, gli incontri fra repubblicani e fascisti si faranno più frequenti, tanto che in regioni come la Liguria (roccaforte mazziniana) e l’Emilia Romagna, si assisterà a una vera e propria emigrazione politica: un numero considerevole di federazioni repubblicane passeranno in blocco sotto le insegne fasciste. Significativo, di queste defezioni, è il caso di Pietro Nenni e dei fratelli Bergamo; esperienza brevissima, ma sintomatica di come il Fascismo, non ancora maturo, fosse riuscito a far leva sugli istinti patriottici dei repubblicani, militanti di spicco compresi.
Fra i transfughi del PRI, il più noto è stato sicuramente Italo Balbo; lo storico Claudio G. Segrè ha scritto: «Balbo, prima di aderire al Fascismo nel ’21, esitò a lasciare i repubblicani fino all’ultimo momento e considerò la possibilità di mantenere la doppia iscrizione (…). Nella lettera di dimissioni scritta il 12 febbraio 1921, Balbo - scrive Segrè – era perfettamente consapevole che il comitato centrale repubblicano si opponeva alla sua iscrizione a entrambe le organizzazioni. Tuttavia – insistette – il fascismo non contrastava con gli ideali mazziniani, soprattutto per quello che riguarda la Patria, il socialismo e la questione agraria». Altri celebri mazziniani transitati nel partito fascista furono: Curzio Malaparte, Ottone Rosai, Romano Bilenchi e quel Berto Ricci che, nel Fascismo, vedeva la perfetta sintesi fra “la Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini”. Naturalmente, la disamina letteraria operata dai suddetti, non riguardò solo il patriota genovese, anche Garibaldi e Pisacane entrarono a pieno titolo nel pantheon littorio. In più di un’occasione, fu lo stesso Mussolini a operare un parallelismo fra l’epopea garibaldina delle camicie rosse e la rivoluzione nazionale delle camicie nere, mentre per ciò che concerne Pisacane, il primo a ri-valutarne il profilo storico fu il fondatore di “Pagine Libere”, Angelo Oliviero Olivetti che scrisse: «fu un socialista nazionale, di un nazionalismo assoluto, intransigente e fremente, ripudiando tutte le dottrine e tutti i contatti con lo straniero, qualunque esso fosse». Ed è proprio da quest’ultima affermazione, che si comprende il retaggio culturale che portò alcuni mazziniani ad allontanarsi dal fascismo, allorquando l’intesa con la Germania nazional-socialista si fece più intensa.
Comunque sia, a cento anni di distanza dalla caduta della Repubblica Romana, sulle rive del lago di Garda sorse la Repubblica Sociale Italiana. Qui, se è possibile, i richiami a Mazzini si fecero anche più frequenti rispetto a prima: fenomeno, quest’ultimo, riconducibile, oltre che alla necessità di una ri-visitazione del pensiero repubblicano, anche al sentimento anti-monarchico post-25 luglio. Durante il primo congresso del Partito Fascista Repubblicano, alla presentazione di quelli che poi passeranno alla storia come i 18 punti di Verona, Alessandro Pavolini disse: «il manifesto programmatico è una sintesi dell’originario pensiero mussoliniano il quale come è stato ricordato coincide per molta parte con quello di Mazzini (…)». Nel medesimo congresso, Fulvio Balisti, il Comandante del Battaglione Giovani Fascisti a Bir el Gobi, pronunciò la seguente frase: «perché non esiste Repubblica dove non esista la libera espressione della volontà del popolo, perché le masse si educano in virtù della Repubblica e Mazzini disse che non i repubblicani facevano la repubblica, ma la repubblica con l’educazione faceva i repubblicani». Per ciò che concerne la struttura economica della Repubblica Sociale, soprattutto in merito al decreto legge 375/1944, relativo alla Socializzazione delle imprese, l’influsso di Mazzini si fece preponderante; ha ricordato in una recente intervista Miro Renzaglia:


«(…) Mazzini propugnava la disintegrazione del sistema salariale. (…) Le radici profonde della socializzazione risiedono nella naturale inclinazione dell’uomo a darsi un sistema di civile convivenza fondato sulla giustizia sociale… Tra la teoria mazziniana delle “associazioni dei lavoratori” e le realizzazioni di Mussolini, l’anello di congiunzione risiede nel sindacalismo rivoluzionario di Filippo Corridoni…». L’eco mazziniana ebbe notevole successo anche sulle pagine della propaganda di guerra; i manifesti, con l’effigie del patriota, campeggiarono per lungo tempo sui muri della Repubblica. Oltre a Mazzini, tra le fila della RSI, vennero arruolati altri celebri miti risorgimentali: sia Goffredo Mameli che Anita Garibaldi, dall’alto dei loro manifesti, indicarono alle giovani leve del fascismo repubblicano la via italiana alla rivoluzione volontarista di Mazzini.


A taluni, l’operazione di recupero dei temi risorgimentali, da parte dell’intellighenzia fascista, potrebbe sembrare un’appropriazione indebita, in ragione di ciò, è giusto ricordare che già il filosofo inglese Bertrand Russell, nella sua “Storia delle idee del Secolo XIX”, criticando Mazzini lo additava come precursore di Mussolini. – critica sottolineata, già a suo tempo, dal compianto Giano Accame.
Della stessa idea di Russell, nel 31, Togliatti scrive: «Mazzini se fosse vivo plaudirebbe alle dottrine corporative, né ripudierebbe i discorsi di Mussolini sulla funzione dell’Italia nel Mondo» – anche se in seguito, il Migliore, in merito a Mazzini, cambierà idea.
Da rilevare che, al termine del secondo conflitto mondiale, la componente maggioritaria del neofascismo venne guidata dall’ala dura degli spiritualisti. Questi ultimi, una volta prese in mano le redini di ciò che era rimasto del mondo fascista, decisero di rimuovere Mazzini dai propri scaffali. Ad approfittare di questa «brillante» operazione culturale, furono proprio i quadri dirigenti del PCI. Infatti, operando gramscianamente sulla storia risorgimentale, i piccisti trasformano la resistenza nell’ultimo atto del risorgimento – anche se a tutt’oggi, i post-comunisti non hanno ancora deciso se l’epopea risorgimentale sia terminata nel ’45, o, come vorrebbero altri, nel ’68… Lo stesso Togliatti inserì frequentemente Mazzini e Garibaldi all’interno dei suoi discorsi, senza contare l’influenza iconografica di tale operazione di recupero risorgimentale: basti pensare che, nel ’48, durante la campagna elettorale, in rappresentanza del Fronte Popolare c’era proprio l’effigie di Garibaldi.
Nonostante la deriva filo-monarchica degli ambienti missini e l’appropriazione, quella si, indebita, della tradizione risorgimentale da parte anti-fascista, alcuni ex-erresseisti si fecero portatori della fiaccola mazziniana d’origine fascista. Tra questi, ricordiamo: Giorgio Pini, Alberto Giovannini, Ernesto Massi, Stanis Ruinas, Concetto Pettinato e Ugo Manunta. Intellettuali e militanti politici che, pur rifacendosi all’esperienza repubblicana di Mussolini, rifiutarono sempre l’etichetta di destra, perché, come scrisse l’allora fascistissimo Curzio Malaparte, in merito alla reazione anti-risorgimentale: «Il liberalismo si vendicò della rivoluzione. La reazione fu liberale: periodo delle sagge riforme. La destra era al potere. Tristissima commedia.»


Romano Guatta Caldini

martedì 3 agosto 2010

Uscocchi

[...]Dentro i covi degli Uscocchi
sta la bora e ci dà posa.

Abbiam Cherso per mezzana,

abbiam Veglia per isposa,

e la parentela ossosa

tutta a nozze di corsaro.


EIA, mirto del Quarnaro!


Alalà! [...]


(Gabriele D'Annuzio - La Canzone del Quarnaro)




Gli uscocchi (in lingua croata uskoci) erano una popolazione costituita prevalentemente da cristiani di origine bosniaca riversatisi sulle coste del Mare Adriatico per sfuggire all’avanzata dei turchi. Inizialmente famosi per le loro operazioni di feroce guerriglia contro i turchi, risolsero poi di dedicarsi alla pirateria: dal loro quartier generale a Segna, presso Quarnaro, organizzarono veloci spedizioni di saccheggio sia contro le rotte turche che contro la Repubblica di Venezia.

Capaci di garantire una feroce fanteria di mare, gli uscocchi erano spesso assoldati come mercenari sulle navi da guerra del tardo XVI secolo: diversi uscocchi prestarono, per esempio, servizio tra le navi della Lega Santa durante la Battaglia di Lepanto (1571).

In croato, uskok significa “colui che assalta”. Il nome testimonia quindi in modo diretto e tangibile il carattere bellicoso degli Uscocchi e la loro predilezione per la guerra di corsa e le tattiche della guerriglia.

I primi ranghi del popolo che sarebbe divenuto poi noto come Uscocchi vennero formati da Croati e Serbi in fuga dall’avanzata degli ottomani del sultano Bayezid II nei Balcani.

Un primo nucleo di guerrieri uscocchi, capitanati da Petar Kružić, si trincerarono nella fortezza di Clissa per sbarrare ai turchi la strada che dall’entroterra bosniaco portava alle coste croate. Bisognosi di appoggio, gli uscocchi, come il resto dei croati, accettarono il sovra-regno dell’Austria, riconoscendo Ferdinando I d’Asburgo come loro sovrano (1 gennaio 1527) in cambio di aiuti contro le forze di Istanbul.

Alla morte di Kružić, i suoi uomini risolsero di arrendersi ai turchi per avere salva la vita. Abbandonata Clissa (12 marzo 1537), gli uscocchi si spostarono a Segna, sulla costa croata, una roccaforte circondata da montagne, foreste e da cale anguste navigabili solo con piccole imbarcazioni. Mentre i turchi organizzavano un proprio corpo di guerriglieri slavi da opporre agli uscocchi (i Martelossi di origine serbo-valacca), questi ultimi risolsero di dedicarsi alla pirateria per ottenere di che sostentarsi. Fu in questo periodo che gli uscocchi si mescolarono a bande di fuorilegge croati provenienti dalle vicine località di Novi Vinodolski e Otočac completando il loro processo di formazione.

A partire dal 1540 la questione degli uscocchi assurse all’interesse della cronaca internazionale. I saccheggi perpetrati dai pirati bosniaco-croati iniziarono infatti ad infastidire non solo i turchi, iniziali bersagli delle loro lotte, ma un po’ tutte le grandi potenze che commerciavano nel Mediterraneo: per prima Venezia ma anche il Regno di Napoli, il Regno di Spagna e lo Stato Pontificio.

Nel 1540 Venezia iniziò a fornire una scorta armata ai mercantili turchi in viaggio nell’Adriatico. La risposta degli uscocchi all’intromissione veneta nel loro “terreno di caccia” fu il saccheggio delle isole croate controllate dai veneziani: Veglia, Arbe e Pago. Decisa a chiudere la questione in modo rapido, la Serenissima chiuse l’aiuto dell’Austria, nominalmente sovrana degli uscocchi, ma parve subito chiaro che gli Asburgo non erano intenzionati a rinunciare al prezioso appoggio dei pirati adriatici per la lotta contro la Sublime Porta.

Nel 1577 Venezia intensificò le sue operazioni di polizia nell’Adriatico: nuove ciurme di fanteria, reclutate in Albania, sostituirono gli equipaggi originari della Dalmazia.

Nel 1592 un esercito turco al comando di Telli Hasan Pasha attaccò la Croazia, saccheggiando e distruggendo diversi insediamenti uscocchi. L’esito della Battaglia di Sisak, che segnò l’inizio della Lunga Guerra voluta dall’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, allontanò però rapidamente dagli uscocchi le ire del sultano Murad II. A non dimenticarsi dei pirati adriatici fu però Venezia che sfruttò le distrazioni balcaniche dell’imperatore Rodolfo per conquistare Trieste e Fiume: gli uscocchi furono costretti a negoziare un accordo con la Serenissima mentre delle fortificazioni controllate dai veneti venivano erette per collegare Segna al mare aperto.

Nel 1615 le azioni degli uscocchi furono il pretesto per lo scoppio della Guerra di Gradisca (1616-1617) tra Venezia e l’Austria , finché, con la vittoria veneziana, i pirati adriatici parvero essere stati definitivamente annientati. Per effetto della Pace di Madrid stipulata nel 1617 le famiglie superstiti degli uscocchi vennero trasferite nell’interno (vicino a Karlovac e nei cosiddetti “Monti degli Uscocchi”), vicino al confine tra la Croazia e la Carniola e le loro navi bruciate.

In realtà, gli uscocchi sopravvissero e ripresero le loro attività piratesche, finendo con il causare un nuovo conflitto tra l’Austria e Venezia nel 1707.

Il ricordo degli Uscocchi sopravvive in molte manifestazioni di cultura popolare dell’Adriatico orientale. Un tipico esempio lo si poteva osservare di frequente fino a non molti anni fa al Villaggio del Pescatore, nel comune di Duino Aurisina (TS), area sensibile alle invasioni dei corsari durante tutto il XVI secolo: nelle notti più serene, al sorgere di Betelgeuse, si esorcizzava l’arrivo dei pirati (evidentemente artefici di una notevole razzia proprio in concomitanza col sorgere dell’astro di Orione) accendendo quattro grandi torce, che venivano portate per le strade del paese urlando proprio il nome dei corsari di Segna. Come molte tradizioni popolari anche questa è andata in disuso; tuttavia ancora oggi è possibile sentire urlare il nome degli Uscocchi in sporadiche occasioni, anche se le luci delle torce sono state sostituite da quelle dei fari delle automobili o delle pile elettriche.

Durante l’impresa di Fiume, Gabriele D’Annunzio inquadrò alcuni dei suoi uomini in veloci unità navali. Esse garantivano rifornimenti ai legionari di Ronchi (poi Ronchi dei Legionari) con azioni di razzia verso il naviglio straniero che incappava nelle loro incursioni. La fine cultura adriatica, vanto di D’Annunzio, battezzò anche questi uomini uscocchi, in ossequio ad una continuità ideale con i romantici corsari d’altri tempi.


Fonte: NADIR TERNI