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Rivista on line di Azione Universitaria

mercoledì 22 settembre 2010

Satira

Letture


In questo saggio si colgono le varie sfumature dell'impresa dannunziana, che vanno dall'irredentismo, all'arditismo, passando per i movimenti culturali e arrivando al suo ultimo atto che è la carta del Carnaro. Assieme a d'Annunzio troviamo altri personaggi che diedero vita a quello che può essere definito un esperimento politico-sociale di dirompente novità. Su tutti Guido Keller, - raffigurato nella bella copertina di Tanino Liberatore a fianco del Comandante-, impavido aviatore, guascone, antesignano dell'antipolitica con il suo lancio del pitale su Montecitorio ben prima della mongolfiera di Grillo.


Satira - Gianfranco Fini

CORSI E RICORSI STORICI

Dedalo 2006: Shakira la nostra colonna sonora!





Intervista ad un goliarda: il professor Caucci si confessa ad Azione Universitaria

Pubblichiamo di seguito un bell'articolo di una militante di Au Firenze. Articolo inerente una tradizione universitaria antica ma ancora, in parte, sentita: la Goliardia.


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Il primo giorno del primo anno universitario, alcuni studenti di giurisprudenza vivono un’esperienza esilarante. Nell’aula magna, gremita di ragazzi spaesati, dove si dovrebbe tenere la temuta lezione di diritto privato del prof. Collura, un personaggio apparentemente normale, prende la parola al microfono della cattedra. Dopo circa dieci minuti in cui tutti credono di avere di fronte il prof. Collura e nello stesso tempo si chiedono che cosa stia blaterando, dato che pronuncia frasi senza una logica legata al diritto, il personaggio in questione confessa di essere un goliarda. Spuntano accanto a lui i suoi fratelli goliardi, con la feluca e il mantello, e si prendono beffe delle povere matricole sedute nei banchi che, ancora una volta, anno dopo anno, cascano nella loro goliardata. Alla fine, però, lanciano un messaggio: “Ragazzi, noi siamo dei goliardi e siamo venuti a dirvi che all’università non c’è solo lo studio ma c’è soprattutto il divertimento!”. Del primo giorno del primo anno universitario, questa frase è l’unica che rimane impressa a tutti. Ma questi goliardi, chi sono? Azione Universitaria, nella volontà di far conoscere la propria storia e nella convinzione che dietro ad ogni simbolo, ogni gesto, ogni motto o canzone che la contraddistingue dalle altre rappresentanze studentesche, ci sia una spiegazione legata ad una tradizione, ha deciso di intervistare un goliarda. A partire dai GUF, Gruppi Universitari Fascisti, infatti, e poi in relazione al FUAN, Fronte Universitario di Azione Nazionale, la feluca, cappello goliardico, diventa simbolo delle rappresentanze della destra studentesca. Oggi, invece, le due cose sono distinte e separate. Capiamo il perché dell’uso della feluca, oggi, nel simbolo di Azione Universitaria. Parliamo della goliardia con il Professor Jacopo Caucci, docente di spagnolo alla facoltà di economia e commercio. Il professore si presenta come sempre in giacca e cravatta, molto elegante ma anche disponibile a prendere un caffè con noi, e così ci racconta la sua esperienza da goliarda.

AU: Professor Caucci, noi la intervistiamo perché sappiamo che lei fa parte della goliardia…

Prof. Caucci: Sì, è vero.

AU: A che età è entrato a far parte della goliardia?

Prof. Caucci: A 18 anni.

AU: E quali sono le motivazioni per cui un ragazzo diventa un goliarda? (il professore ride) O meglio, goliarda si nasce o si diventa?

Prof. Caucci: No, goliardi si nasce… perché lo spirito è quello che conta!... e poi si ci diventa perché in goliardia si entra attraverso un’iniziazione che noi chiamiamo “processo”.

AU: So che il processo è molto pesante per le matricole…

Prof. Caucci: Sì, per le aspiranti matricole… perché matricole si diventa dopo aver subito un processo. Ovviamente è pesante per quello che è comunque un gioco quindi la persona processata è sicuramente offesa e insultata ma tutto ciò come tentativo di trasgredire e dissacrare, mai per offendere realmente la persona.

AU: Quindi una persona che non sa stare al gioco, potrebbe prenderla male?

Prof. Caucci: Sì, ed è successo che molti magari si siano avvicinati a noi e poi non siano entrati ma che siano comunque rimasti nostri amici. La differenza tra una persona che è un amico/conoscente e quello che siamo noi è che noi ci riteniamo “fratelli in goliardia” perché c’è un vincolo che ci lega ed è quello dato proprio dal processo, dai colori, dall’ordine, dall’appartenenza alla città… [...]


E qui finisce la prima parte di questa bella intervista. A breve la II puntata!

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Università, Azione Universitaria (PdL): Commissariare Atenei che boicottano l’inizio delle lezioni, gli studenti non paghino rette



“Le lezioni sono un diritto, bloccarle è un delitto” è lo slogan con il quale Azione Universitaria ha iniziato la propria battaglia contro chi vuole difendere la poltrona sulla pelle degli studenti e dei ricercatori.

“Da Macerata, Ferrara, Siena, Roma Sapienza e Tor Vergata parte la controffensiva degli studenti universitari sui quali incombe la minaccia di boicottaggio delle lezioni. Agli studenti che saranno privati del diritto di seguire le lezioni diciamo di non pagare le rette, al Ministro Gelmini chiediamo di intervenire con il Commissariamento nei confronti di quei Rettori che permetteranno il calpestamento del Diritto allo Studio, ai professori che vorranno boicottare esami e lezioni che dovranno vedersela direttamente con gli studenti”. È quanto dichiara Andrea Volpi, nuovo Coordinatore Nazionale di Azione Universitaria.

“È inaccettabile – continua Volpi – che una minoranza di baroni possa anche solo pensare di interrompere il regolare svolgimento dell’attività didattica nelle Università italiane. Come il cittadino che paga le tasse ha diritto di ricevere servizi idonei così lo studente che paga le salatissime rette universitarie e l’affitto per un posto letto ha diritto a frequentare le lezioni ed a sostenere gli esami. La violenza messa in atto dagli irriducibili della casta è un atto grave, vergognoso e incivile da combattere per ripristinare la legalità e riaffermare il diritto allo studio: per questo saremo in campo insieme agli studenti, con ogni mezzo, per liberare l’Università dalle zavorre del Paese, ovvero da quei docenti e ricercatori traffichini ed assenteisti che, nella maggior parte dei casi, non sono mai a lezione o a ricevimento, venendo meno ai propri doveri” .

“I ricercatori sbagliavano ieri a prostituirsi al Barone di turno che li sfruttava per sostituirlo a lezione ed a ricevimento, sbagliano oggi a non comprendere la necessità di una Riforma che li qualifica come figure importanti per lo sviluppo della Ricerca e della Nazione”.

Andrea Volpi

Coordinatore Nazionale Azione Universitaria





Lo striscione affisso dai militanti di Azione Universitaria Firenze
al Polo Scienze Sociali di Novoli

sabato 18 settembre 2010

OMICIDI. NON "MORTI BIANCHE" - di Piero Sansonetti

Per chi non lo conoscesse Piero Sansonetti è il direttore degli "Altri", foglio di sinistra duramente contestato dalla sinistra stessa. Ha tradizioni comuniste, quindi non in linea con le nostre ma, nel caso delle morti sul lavoro, inconcepibili in un paese che si attesta a V potenza industriale nel Mondo, possiamo dire di trovarci in accordo con lui.

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«Amò quella volta come se fosse l'ultima / Diede un bacio alla sua donna come se fosse l'ultimo / E ad ognuno dei suoi figli come se fosse l'unico / E attraversò la via con il suo passo timido / Salì sulla impalcatura come se fosse macchina / Costruì sul solaio quattro pareti solide / Mattone su mattone in un disegno magico / I suoi occhi imbottiti di cemento e lacrime / Sedette a riposare come se fosse sabato / Mangiò riso e fagioli come se fosse un principe / Bevve e ebbe il singhiozzo come se fosse un naufrago

Danzò e rise come se ascoltasse musica / E inciampò nel cielo come se fosse ebbro /

E fluttuò nell'aria come se fosse un passero / E finì per terra come un sacco flaccido / Agonizzò nel mezzo del marciapiede pubblico / Morì contromano intralciando il traffico.»


Sono i versi (tradotti) di una canzone, che io trovo bellissima. E' una canzone di Chico Buarque de Hollanda, cantautore brasiliano. In Italia la cantò qualche volta Ornella Vanoni. Chico Buarque e Ornella Vanoni sono stati (e sono) due artisti famosissimi, nei loro paesi e fuori. La canzone della quale vi stiamo parlando è molto, molto meno famosa. E' del 1971, ma non fu mai trasmessa dalle radio ufficiali. Né in Italia né in Brasile. Piaceva poco. E' sempre piaciuta poco, ai governi, la denuncia degli omicidi sul lavoro. Nel 1971 in Brasile c'era il fascismo. Era al potere una giunta militare guidata dal generale Emílio Garrastazu Médici. In Italia invece c'era un governo largamente democratico, guidato da Emilio Colombo, leader tra i più pacifici e liberali della Democrazia Cristiana (oggi, ultranovantenne, vive tranquillo nella sua Lucania e fa il tifo per il partito democratico). Eppure di fronte alle morti sul lavoro non c'era molta differenza tra un regime illiberale e feroce come quello brasiliano e la placida Dc.

Nel 2010 - quarant'anni dopo quella canzone – le morti sul lavoro sono diminuite, sia in Italia che in Brasile. Ma le cifre che riguardano questa strage sono ancora altissime. L'Inail sostiene che nel 2009 i morti sul lavoro in Italia sono scesi del 3 o 4 per cento sull'anno precedente, attestandosi sulla cifra di 1050. Che in ogni caso vuol dire, in media, quasi tre morti al giorno. Ai morti poi si aggiungono i feriti, una parte dei quali resta invalida ed ha la vita spezzata: sono diverse centinaia di migliaia. Più di mille al giorno. L'Inail è l'ente di stato preposto all'assistenza dei lavoratori che si infortunano o perdono la vita. Molti sindacalisti sostengono che le cifre reali della strage sul lavoro sono molto più drammatiche.

L'Italia, tra i paesi europei, è ai primi posti nella classifica della mortalità sul lavoro. In media ci sono 2,5 morti ogni 100 mila occupati. A questa statistica sfugge tutto il comparto del lavoro nero, che in Italia è molto più grande rispetto ad altri paesi europei. La media europea dei morti sul lavoro è di 2,1 ogni centomila occupati. Ma i paesi più moderni, come ad esempio la Germania e la Gran Bretagna, hanno una media che oscilla tra l'1,3 e l'1,5. Poco più della metà, rispetto all'Italia.

Quello che colpisce è la sproporzione tra le cifre e la “percezione?del problema, come si dice nei nuovi linguaggi sociologico-politici. Vediamo come stanno le cose.

Dovete sapere che ci sono alcuni leader della lotta contro le “morti bianche?, come per esempio Marco Bazzoni (operaio metalmeccanico toscano che ha dedicato la sua vita intera a questa battaglia) i quali chiedono a gran voce ai giornalisti di non usare più il termine "morti bianche". Dicono: "morti bianche" è una espressione che accredita la casualità dell'incidente. E infatti spesso si dice: "incidente sul lavoro". Non è così: la stragrande maggioranza degli incidenti non sono affatto incidentali: sono omicidi. Quantomeno omicidi preterintenzionali. Nel senso che dipendono dalla assenza di misure di sicurezza. E questa assenza è decisa, consapevolmente, dal datore di lavoro, il quale in questo modo risparmia, cioè riduce il costo del lavoro. Dice Bazzoni: «Per piacere, chiamateli omicidi».

Ecco, appunto, chiamiamoli omicidi, e torniamo all'affare della percezione. Se li equipariamo agli altri omicidi (quelli per mafia, quelli per piccola delinquenza, quelli familiari) scopriamo che gli omicidi sul lavoro sono - come categoria di omicidio – non solo al primissimo posto, ma sono più del doppio di tutti gli altri omicidi. Addirittura – se mettiamo tra parentesi gli omicidi familiari – gli omicidi sul lavoro sono quattro volte la somma di tutti gli altri omicidi messi insieme , cioè quelli sui quali ogni volta giornali, partiti, governi, costruiscono le grandi campagne di opinione pubblica sulla cosiddetta "sicurezza". E per combattere gli omicidi di "mala" si impegnano circa 350 mila persone (tra carabinieri, poliziotti, finanzieri eccetera) e in più si propone l'istituzione di milizie private; mentre per combattere gli omicidi sul lavoro (che sono quattro volte di più) si impegnano circa 900 ispettori del lavoro, i quali per altro sono privi di strumenti, di tecnologie, di automobili, di poteri, eccetera.

Capite cosa intendo dire quando uso la parola "sproporzione"?

A cosa è dovuta questa sproporzione? A un fattore semplicissimo: l'interesse del sistema economico e di chi lo domina. Oppure potrei addirittura riassumere tutto con una sola parola: mercato. E' il mercato che impone la riduzione del costo del lavoro, e spesso, per ridurre il costo del lavoro, la via più semplice è ridurre la sicurezza. Il mercato stabilisce che c'è un limite sopportabile di morti sul lavoro, che questo limite, in Italia, è 3 al giorno, ed è giusto che sia un po' sopra il limite tedesco e britannico (che è di 2 al giorno) perché in Germania e Gran Bretagna ci sono altri sistemi per migliorare i profitti. Il regime di libera concorrenza prevede questo equilibrio. Guai a romperlo.

Come si risolve il problema? C'è un solo modo: chiedendo alla Stato di intervenire. Il futuro di una civiltà come la nostra sarà solido solo se riusciremo a compere questa operazione: fortissima riduzione della presenza dello Stato in ogni settore della vita civile, tranne uno: il lavoro, i rapporti di lavoro, la costruzione del reddito. Si tratta di modificare la ricetta del passato, che era: libertà economica grande, libertà personale piccola. Anzi, di rovesciarla. E' la sola via di salvezza non solo per la nostra civiltà, ma per lo stesso capitalismo.


Fonte: http://www.centrostudinadir.tk/

martedì 14 settembre 2010

Articolo tratto dal sito http://www.avanti.it/  

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Una pagina della nostra storia
di Marco Petrelli


Negli ultimi anni molto si è scritto, ma soprattutto dibattuto, su quel periodo che va dal 1943 al 1945 e che vide gli italiani affrontarsi su schieramenti opposti. Il quadro generale della guerra civile rappresenta fascisti ed antifascisti in un sanguinoso confronto, sullo sfondo delle vicende belliche del Secondo conflitto mondiale; la relativa storiografia pone l’accento sullo scontro ideologico, sui crimini commessi da ambo le parti, sull’apporto, più o meno considerevole, dato da fascisti e partigiani ai propri alleati.Manca un tassello a questa drammatica vicenda, tassello di non poco conto. Durante tutti e seicento i giorni dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45 la monarchia sabauda, Badoglio e le sfere militari riparatesi presso gli americani avevano riorganizzato una forma di stato, denominato Regno del Sud, con sede a Brindisi. Poco si conosce della reggenza brindisina (settembre ’43-febbraio ’44, successiva capitale Salerno), soprattutto per quanto concerne il contributo che i soldati italiani fedeli al re hanno fornito alla guerra contro i tedeschi.Il volume di Arrigo Petacco e Giancarlo Mazzucca – “La resistenza tricolore. La storia ignorata dei partigiani con le stellette” (Mondadori, 180 pagine, 19 euro) -, di recente pubblicazione, rappresenta un primo, significativo contributo al tentativo di far luce sulla vicenda militare e umana dei “soldati del sud”. Dimenticati dalla storiografia resistenziale, cobelligeranti (mai considerati a pieno titolo alleati di Gran Bretagna e Usa) degli angloamericani, il contributo di sangue di questi italiani fu elevato. Essi tennero fede al proprio giuramento, battendosi con fervore contro i nazisti, arrivando addirittura a liberare, (es. Bologna), alcune città italiane. Proprio come accadrà per quegli internati in Germania che risponderanno all’appello di Mussolini, rinforzando così le divisioni di Graziani, anche gli italiani rinchiusi nei campi britannici e americani si trovano di fronte ad una dura scelta: continuare ad appoggiare il precedente regime, con conseguente allungamento della reclusione, oppure rientrare in Italia per combattere al fianco delle potenze democratiche. Scelta che non può essere valutata sotto un solo profilo: vanno considerate la possibilità di tornare in Italia; il combattere con forze maggiormente organizzate e con maggiori probabilità di vincere la guerra; il concetto di un riscatto ideale di un popolo accusato da più parti di tradimento; il giuramento prestato allo Stato (la monarchia). Queste alcune delle ragioni alla base delle adesioni. Uno tra i più noti e celebri scrittori italiani, Curzio Malaparte, in un capitolo de “La Pelle”, così descrive le nuove truppe italiane: “Quei soldati italiani vestiti di uniformi tolte ai cadaveri inglesi… le loro uniformi erano sparse di nere chiazze di sangue. A un tratto mi accorsi con orrore che quei soldati erano morti. Mandavano un pallido odore di stoffa ammuffita, di cuoio marcio, di carne seccata al sole; […] Il nostro amor proprio di soldati vinti era salvo: ormai combattevamo al fianco degli Alleati, per vincere insieme con loro la loro guerra dopo aver perduto la nostra, ed era perciò naturale che fossimo vestiti con le uniformi dei soldati alleati ammazzati da noi”.Una descrizione dura, feroce, ma nel contempo pietosa quella fornita da Malaparte. Equipaggiamento di fortuna, divisa grigio verde italiana o, come nel caso de “La Pelle”, lacere uniformi inglesi tolte ai caduti. Così comincia l’epopea di questi uomini, epopea per nulla diversa da quella vissuta dai loro ex commilitoni del Nord, soltanto il cui valore permetterà una certa riabilitazione agli occhi degli altri Paesi coinvolti nel conflitto.I primi atti di ostilità verso la Germania avvengono durante le fasi iniziali di mobilitazione tedesca, dopo l’annuncio alla radio del proclama di Badoglio. A Roma come nelle isole greche, ufficiali e soldati obbediscono ad uno degli ultimi ordini ricevuti dallo Stato Maggiore: “[…] risponderanno ad attacchi di qualsiasi altra provenienza”. Il 9 settembre 1943 a Porta San Paolo, Roma, si consuma una dura battaglia per impedire a formazioni della Wehrmacht di penetrare nella Capitale. Gli invasori riusciranno nel loro intento soltanto dopo aver soffocato la ferma e decisa opposizione di cittadini romani e militari.Nelle isole di Cefalonia e Corfù un’immane tragedia: la Divisione “Acqui” del generale Gandin riceve ordine dal colonnello Barge, comandante la 966esima divisione da Fortezza, di disarmare la “Acqui” . Alla risposta negativa degli italiani la reazione tedesca è terrificante: ai combattimenti (che avranno termine solo il 22 settembre) seguirà un eccidio di proporzioni titaniche, con più di novemila tra soldati e ufficiali trucidati, senza tenere conto delle norme che regolano lo status di prigioniero di guerra, consegnando l’eccidio di Cefalonia alla storia come il più grave crimine di guerra (per citare Simon Wisenthal) compiuto dall’esercito tedesco durante il secondo conflitto. La fedeltà dimostrata da questi uomini al giuramento fatto al re (in Italia, anche dopo il fascismo, la forma di stato era una monarchia costituzionale) spinse gli Alleati a concedere la costituzione del Cil (Corpo italiano di liberazione) nel marzo 1944, che subito si adopera in importanti scontri come quelli che porteranno alla liberazione del porto di Ancona (in realtà preso dai polacchi ma grazie all’intervento decisivo del Cil) e dell’entroterra marchigiano; ancora, sempre nel 1944 reparti italiani entrano per primi a Bologna. Molti i marinai e gli aviatori: marinai sommergibilisti e fanti di marina che si ritrovano al seguito degli inglesi nel sud est asiatico, a dare battaglia ai giapponesi, in unità ideale con quegli internati italiani costretti dai nipponici a lavorare alla stregua di schiavi nella costruzione di vie di comunicazione nel Borneo. Le ultime importanti azioni nel 1945: a pochi giorni dalla liberazione di Genova, commandos del Sud silurano la portaerei “Aquila” (Marina Repubblicana), per paura che i tedeschi potessero usarla per ostruire l’imboccatura del porto cittadino.Malgrado sangue e sudore versati sui campi di battaglia d’Europa e, come abbiamo visto, in estremo oriente, la storiografia resistenziale ha dimenticato tout court i “ragazzi del Sud”. A differenza di formazioni completamente politicizzate come le Garibaldi o le Matteotti, i “partigiani con le stellette” (parafrasando Petacco) sono l’emanazione di un tentativo di rinascita della nazione e del senso di comunità, nonché un tentativo di ricostruire (e rappresentare) uno Stato. Essi non combattono per una ideologia, quanto per il concetto nazionale, quindi per una collettività. A sessantasette anni da quel tragico 1943, il passato più prossimo dell’Italia sembra ancora avvolto in un fitto strato di nebbia. Non si comprende con esattezza il motivo per cui quella fase della nostra storia sia così gelosamente protetta e lasciata fuori dalla portata di qualsiasi analisi o studio. Interessante, peraltro, è capire perché a non destare interesse siano i militari del governo di Brindisi: è inopinabile che essi abbiano abbracciato a pieno la causa della libertà e che abbiano appoggiato la campagna militare di Londra e Washington senza riserve, come d’altro canto indiscutibile la loro avversione al fascismo, anche perché i prigionieri delle tante battaglie contro i tedeschi non ricevettero certo un trattamento di favore.Il volume di Mazzucca e Petacco rende nota al grande pubblico la tragica avventura di questi ragazzi, dopo più di mezzo secolo di incomprensibile silenzio. L’unica speranza è quella di non dover aspettare altri sessant’anni e oltre per sapere il motivo di tanto ostracismo.

S-21, LA MACCHINA DI MORTE DEI KHMER ROSSI.

Di seguito una bella recensione del nostro amico Julius, redattore particolarmente interessato ad argomenti che riguardano la storia dimenticata di popoli e paesi rimasti, in tempi non sospetti, vittime di guerre interne e totalitarismi.

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Autori: Rithy Panh, Christine Chameau.

“La ruota della Storia avanza. E’ impossibile impedirle di passare senza essere schiacciati”. SLOGAN DEI KHMER ROSSI.

Il 17 aprile 1975 i Khmer Rossi, ovverosia le milizie rivoluzionarie di Pol Pot , prendono il potere in Cambogia occupando la capitale Phnom Penh. Lo scopo delle armate comuniste è quello di realizzare nel più breve tempo possibile “il grande balzo in avanti del paese”. Pol Pot, leader supremo del nuovo regime, è deciso a riorganizzare con la forza l’intera società cambogiana avvalendosi della spietata decisione dei suoi sottoposti che non esiteranno a compiere efferatezze d’ogni genere pur di realizzare “la prima rivoluzione socialista perfetta”. La conseguenza della volontà pseudo-marxista di abbattere una società per poi ricostruirla secondo i suo ferrei dettami è che in tutta la Cambogia gli abitanti delle città vengono trasferiti nelle campagne in campi di lavoro costituiti apposta per rieducare le persone “deviate”. I cittadini sono chiamati i “17 aprile” o “il popolo nuovo”, epiteti dispregiativi usati per designare le persone che non avevano preso parte alla guerriglia e che quindi dimostravano di essere “inquinate” dalle influenze straniere (ricordiamoci che la Cambogia era stata sotto i francesi).

Dal 1975 al 1979 i ritmi di lavoro infernali stabiliti dai dirigenti della dittatura e le inarrestabili esecuzioni sommarie porteranno alla morte circa 2 milioni di cambogiani. Di questi, ben 14.000 sono stati torturati e giustiziati dai membri dell’ufficio di sicurezza nazionale S-21, situato in un ex-liceo della capitale Phnom Penh. Questo organo del regime era posto agli ordini diretti del Comitato Centrale e aveva l’incarico di estorcere ai detenuti ammissioni di sabotaggio nei confronti del Partito e della sua “missione modernizzatrice”.

Ma come funzionava l’S-21? Il libro risponde al quesito riportando le testimonianze dei pochi sopravvissuti e di alcuni ex- carcerieri.

-IL LIBRO-

L’ARRIVO.

Ogni giorno all’S-21 arrivavano camion carichi di prigionieri. La procedura era sempre la stessa: gli sventurati venivano bendati e fatti scendere dall’automezzo; i Khmer Rossi li facevano sedere per terra, li interrogavano sul luogo di provenienza e sul loro lavoro. Successivamente le guardie legavano una corda al collo dei prigionieri e li conducevano senza troppi riguardi nei meandri del carcere. La camminata incerta dei prigionieri era motivo di scherno, chi cadeva riceveva calci. Ad un certo punto i prigionieri venivano fatti fermare per far delle foto che sarebbero servite a compilare i loro dossier. In questa circostanza i detenuti dovevano sdraiarsi per terra e non potevano muoversi fino al termine dell’operazione. Chi si alzava senza autorizzazione veniva preso a bastonate.

-PRIVAZIONI E TORTURE-

Quando i prigionieri arrivavano erano persone normali, di costituzione sana, ancora in carne. Dentro il carcere imparavano a conoscere il significato della parola “Fame”. La nutrizione era scarsissima, irrisoria, e l’apporto di vitamine nullo. Ai detenuti veniva elargita acqua di bollitura di riso (!) due volte al giorno. In tali condizioni i prigionieri pur di nutrirsi un minimo erano disposti a mangiare qualsiasi cosa; la disperazione rimuoveva qualsiasi freno inibitore. Narra Nath, uno dei sopravvissuti all’S-21: << … A volte, la notte, la luce attirava gli insetti. Cadevano qua e là. Noi li prendevamo piano piano e li mettevamo in bocca. Ma se il guardiano ci sorprendeva, entrava, si toglieva la scarpa e ci dava tre o quattro colpi sulle orecchie. Perdevamo conoscenza. L’insetto ci usciva di nuovo dalla bocca. I nostri occhi diventavano blu, quasi sanguinavano …>>

La fame, purtroppo, era solo un aspetto dell’inferno chiamato S-21. L’ottusità e la violenza dei comunisti cambogiani raggiungevano l’apice negli interrogatori che venivano regolarmente svolti con brutale decisione dall’aguzzino di turno.

I detenuti venivano interrogati singolarmente. Bendati e con le mani legate dietro la schiena erano condotti in disadorne stanze munite soltanto di una sedia e di un tavolo con annessi fogli su cui scrivere la propria confessione. Il carcerato veniva fatto sedere, gli veniva messo un ceppo ai piedi che poi era fissato al tavolo. Dopodiché, tolta anche la benda, per prima cosa veniva picchiato in modo che fosse più propenso a parlare. Subito dopo iniziavano le domande. Del tipo: <>. E altre amenità del genere. Il detenuto in tutta sincerità rispondeva di non sapere nulla, che non aveva contatti col nemico, che non era una spia, ma questo era il tipo di risposte che non piaceva ai carcerieri. Indottrinati com’erano davano per scontato che se uno era finito all’S-21 era sicuramente un pericoloso sovversivo. Quindi era abituato a mentire. Quindi andava picchiato. I calci e i pugni, come pure le bastonate, non risparmiavano nessuno. Inoltre le torture non finivano con un solo interrogatorio, il malcapitato doveva subire altre sessioni finché non confessava, dipendeva solo dalla sua forza di volontà. Poteva anche essere rinterrogato perché alcuni passi delle sue dichiarazioni risultavano oscure ai vertici. E i carcerieri non si ponevano limiti di tempo. Per fiaccare l’animo dei detenuti ricorrevano a qualsiasi pratica: si sa di prigionieri che hanno conosciuto la frusta sulla pelle della loro schiena o che hanno sperimentato il terrore di essere quasi soffocati con dei sacchi messi in testa. Per non parlare dell’uso sistematico degli elettrodi che ha segnato nel corpo e nella mente tanti cambogiani innocenti. La diffusa pratica di strappare le unghie delle mani e dei piedi, poi, quasi sempre bastava a far confessare anche l’inverosimile a tutti quelli che un minimo erano riusciti a resistere fino a quel momento. La testimonianza di Pha Than Chan, sopravvissuto a queste angherie grazie al suo spirito indomito, è un concentrato di tutte queste cose. Fu arrestato nel 1977 e sebbene fosse torturato regolarmente non ha mai ceduto: << … Mi hanno interrogato per circa un anno. La tortura era terribile. A volte non riuscivo più a respirare. Il dolore era spaventoso. Se non avevi niente da dire cominciavano a picchiare con la frusta. Potete guardare la mia schiena, è ancora piena di cicatrici. Se non rispondevi ti colpivano con una mazza. Alla fine usavano gli elettrodi. Quando perdevi conoscenza, passavano ad altre torture. Si stupivano della mia resistenza. Mi laceravano la carne, mi strappavano le unghie. A loro non importava sapere se sarei morto oppure no …>>.

-CONCLUSIONI-

Il libro di Rithy Panh è un campionario di atrocità che colpisce il lettore con forza inaudita. L’acquisto è consigliato a tutti per capire meglio cosa è stato il dominio comunista in Cambogia e soprattutto riflettere sul fatto che non esiste un “Male Assoluto” ma “tanti mali” che sono “assoluti” per chi ha la disgrazia di esserne risucchiato, in qualsiasi epoca e in qualsiasi luogo del mondo. Voglio chiudere la recensione riportando uno scambio di battute tra il superstite Nath e l’ex-carceriere Houy affinché tutti possano capire a quali conseguenze porti il lavaggio del cervello attuato dai sistemi totalitari e quanto la dittatura dei Khmer Rossi sia stata un “male assoluto” per il popolo cambogiano.

<< … E i bambini, alcuni non avevano neanche un anno, erano ancora lattanti, sapevano appena camminare, contro cosa erano? >> chiede Nath. << Erano anche loro dei nemici? >>

Risposta: << I funzionari del Partito dell’S-21 ci hanno insegnato: “Quando il Partito arresta qualcuno, arresta un nemico del Partito >> spiega Houy.

sabato 4 settembre 2010

I sette colori di Robert Brasillach (la recensione di Piersandro Pallavicini)

Un romanzo che mi ha (positivamente) sorpreso. Davvero, credevo tutt'altro. Brasillach si porta dietro un'aura oscura. Francese, fascista convinto, alla fine della seconda guerra mondiale fu giustiziato per collaborazionismo. Unico scrittore (che io sappia) a subire in Francia questo destino, a differenza, per esempio, di Drieu La Rochelle (è interessante notare che per Brasillach, emessa la condanna a morte per collaborazionismo, ci fu una mobilitazione di scrittori francesi, tra i quali molti di area comunista, per chiederne la grazia, che venne però rifiutata). E' un'icona della destra intellettuale (e non), anche di quella italiana: per esempio, la sua sagoma campeggia sui muri di Casa Pound, a Roma.
Di questo libro (per il quale devo ringraziare Roberto Alfatti Appetiti, che me ne ha gentilissimamente regalata una delle rare copie disponibili) la quarta di copertina evidenzia i contenuti che vanno alle radici dei miti fascisti...
Ma è in parte fuorviante. Sì, di fascismo si parla eccome. Si parla per esempio della guerra civile in Spagna, si parla del protagonista maschile che finisce a fare il precettore, in Italia, per una famiglia fascista. E si parla di un periodo speso sempre da costui nella Germania nazista, dove assiste alle "colossali" celebrazioni, riunioni, manifestazioni naziste. E se sul nazismo (riguardo al quale la questione razziale è totalmente ignorata. E il libro è del 39!) se non altro ci sono delle considerazioni nell'area del dubbio, per il fascismo italiano e spagnolo il trattamento è apologetico.
Io non sono fascista, anzi starei nell'area della sinistra.
Ho provato fastidio, irritazione? No, e qui sta la sorpresa. Credevo di adontarmi. Invece per niente. Invece Brasillach entra nelle emozioni (non nelle ragioni) del fascismo da bravo scrittore, cioè facendole distillare dal racconto, non enunciandole, quindi rendendole credibili, digeribili, sensate. Conduce anzi il lettore a considerare un momento storico a posteriori orribile (io continuo a considerarlo così, anche dopo questa lettura) nel momento in cui si concretizzava. Fa capire da dove potesse nascere l'entusiasmo di chi, allora, diventava fascista non per imposizione ma per convinzione. E questo lo fa anche col nazismo (anche se, lo ripeto, i campi di concentramento non si possono ignorare, e qui sta il difetto più grande di questo libro). Lo fa non su ragionamenti che attengono alla politica ma, ripeto, con le emozioni, in un percorso attraverso il culto della giovinezza, del cameratismo, della fratellanza, della gioia del celebrare la grandiosità della propria nazione.
Naturalmente, ripeto, a posteriori sappiamo che tutto questo aveva ben altre, terribili conseguenze. Ma come dire: il romanzo va letto senza preconcetti. E' scritto splendidamente (non sto a parlare del cotè sperimentale, di ricerca sulla tecnica, interessante e in buona parte riuscito), si legge come si legge un buon romanzo, pieno di storie, di amicizia, di amore, e in più aiuta a capire qualcosa che, oggi, sembra ancora vietato prendere anche semplicemente in considerazione.
Piersandro Pallavicini (Vigevano, 1962) è uno scrittore e ricercatore universitario italiano. Ha iniziato a produrre racconti pubblicati su riviste online negli anni '90, tra cui Fernandel, per i cui tipi è uscita la sua raccolta di racconti Anime al neon nel 2002. Il suo romanzo d'esordio è Il mostro di Vigevano, pubblicato nel 1999 da Pequod. E' poi passato alla casa editrice Feltrinelli, per la quale ha pubblicato Madre nostra che sarai nei cieli (2002), Atomico Dandy (2005) e African Inferno (2009). In quest'ultimo in particolare Pallavicini esamina il tema dell'immigrazione africana in Italia, ambientando il romanzo nella provincia italiana, a Pavia. Al tema dell'immigrazione africana in Italia appartiene anche il romanzo breve del 2010, A braccia aperte, pubblicato nella collana Verdenero Romanzi delle Edizioni Ambiente.

Articolo per L'eminente dignità del provvisorio - Fonte:  http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/

venerdì 3 settembre 2010

SCUOLA: "ECCO I NUMERI DEL TEMPO PIENO IN TOSCANA. LA REGIONE CHIEDA SCUSA ALLA GELMINI"


Firenze, 3 settembre 2010

 

Comunicato stampa

 

SCUOLA, DONZELLI (PDL): "ECCO I NUMERI DEL TEMPO PIENO IN TOSCANA. LA REGIONE CHIEDA SCUSA ALLA GELMINI"

 

 "Dopo mesi di polemiche, sceneggiate, bugie, forzature, strumentalizzazioni di bambini e letterine faziose, i numeri ufficializzati ieri dal Governo parlano da soli: in Toscana il tempo pieno continua ad aumentare grazie all'Esecutivo di centrodestra, nonostante la crisi e le difficoltà economiche. Visti i dati, il presidente Rossi e la sua vice Stella Targetti dovrebbero ammettere di aver detto un sacco di baggianate, e se avessero un minimo di coerenza dovrebbero riscrivere un'altra letterina al Ministro Gelmini, ma stavolta con le scuse e i ringraziamenti al Governo da parte dei toscani".

 

Così Giovanni Donzelli, vicepresidente della commissione istruzione in Regione, mostrando un grafico con i dati dal 2008 ad oggi delle classi a tempo pieno in Toscana garantite dal Governo ed illustrando i dati disaggregati provincia per provincia  sul tempo pieno nelle scuole primarie in Toscana.

 

"Nell'anno scolastico che sta per iniziare – ha affermato Donzelli - a Firenze si contano 38955 alunni e 1841 classi totali: di queste ben 1090, per un totale di 23983 bambini, saranno a tempo pieno (con una percentuale di tempo pieno su tempo normale del 59,2% per le classi e del 61,6% degli alunni). A Prato sono 7110 i bambini (314 classi) che godranno del tempo pieno su un totale di 10452 alunni e 471 classi totali (rispettivamente il 68% ed il 66,7%). Ad Arezzo i dati indicano un totale di 758 classi e 14145 bambini, con 194 classi e 3802 alunni che usufruiranno del tempo pieno. A Grosseto 448 classi e 8424 alunni totali, di cui 3467 (180 classi) a tempo pieno. A Livorno si contano 281 classi e 5939 alunni che avranno l'orario prolungato su un totale rispettivamente di 622 classi e 12660 alunni totali. A Lucca sono 304 le classi a tempo pieno, con 5773 bambini su un totale di 841 classi e 15784 bambini. A Massa-Carrara i dati parlano di 116 classi e 2237 bambini che usufruiranno del tempo pieno su un totale di 389 classi e 7047 alunni. A Pisa sono 229 classi e 4754 alunni su un totale di 866 classi e 17116 alunni totali. A Pistoia i dati indicano un totale di 599 classi e 12009 alunni, con 159 classi e 3518 bambini. A Siena sono 4899 gli alunni che godranno del tempo pieno su un totale di 10830 (241 classi su 560 totali). Il dato regionale aggregato indica un incremento costante da quando Berlusconi è tornato al Governo: nel 2007-2008 infatti erano 2877 le classi a tempo pieno, contro le 2932 del 2008-2009, le 3084 del 2009/2010 e le 3108 di quest'anno (con percentuali che sono passate dal 38,9% del primo anno al 42 % di quest'ultimo", ha proseguito il consigliere regionale.


"Chi ha a cuore il futuro e l'istruzione fa poche polemiche e molti fatti. La sinistra e la Cgil vogliono solo difendere gli sprechi e le assunzioni a pioggia fatte per accontentare i sindacati. La scuola per fortuna adesso non sarà più un ammortizzatore sociale ma il luogo della crescita, della cultura e del merito. Mi spiace per il Pd e la Cgil, ma la scuola, grazie al Ministro Gelmini, anche in Toscana avrà al centro i ragazzi e non gli interessi della casta sindacale", ha concluso Donzelli.

 

In allegato i file contenenti i dati disaggregati e il grafico sul tempo pieno in Toscana negli ultimi quattro anni scolastici.

 


giovedì 2 settembre 2010

SCUOLA: Targhe anti-Gelmini nelle materne, Donzelli (Pdl) «Targetti vergognati, non si targano i bambini»

Targhe anti-Gelmini nelle scuole materne, Donzelli (Pdl)

«Targetti vergognati, non si targano i bambini»

«Mi impegno ad andare personalmente a staccarle. Tutte e 93»

«Targetti vergogna, non si targano i bambini». E' una stroncatura
netta, quella che il Vicepresidente della Commissione regionale V
(Cultura e Istruzione) Giovanni Donzelli, Consigliere regionale del
Pdl, rivolge all'iniziativa con cui la Vicepresidente della Regione
Stella Targetti, con delega proprio all'istruzione, ha condito la
firma dell'accordo per l'istituzione di 93 nuove classi di scuola
materna sul territorio toscano.

«La sinistra – sostiene Donzelli – vuole coltivare il consenso
catechizzando anche i fanciulli. Forse per questo, con una mossa che
ha dello scandaloso, pare abbia ben pensato di consegnare alle varie
scuole dove si trovano le 93 sezioni sovvenzionate dalla Regione
Toscana delle targhe per affermare una sorta di proprietà ideologica
su quelle classi e, di conseguenza, sulla loro baby-popolazione».

«Quello della targa è un obbrobrio – ci va giù duro Donzelli –
un gesto che, riguardando i più piccolini, non esito a definire
scandaloso e osceno. Marchiare i bambini, queste targhe
autocommemorative e auto celebrative… sono atti degni dei peggiori
regimi di stampo ex-Sovietico». Secondo l'esponente del Pdl il fatto è
che la Regione, soprattutto nel caso specifico in cui con uno
stanziamento di 5 milioni e 300 mila euro ha garantito il posto alla
materna a ulteriori 2.300 bambini, dovrebbe semmai essere soddisfatta
di aver contribuito a un maggior benessere sociale. «Invece no –
afferma Donzelli – qui si pensa a catechizzare ideologicamente i
bambini, a produrre consenso all'interno delle scuole dell'infanzia,
attraverso un'operazione che definire di bieca polemica è fin troppo
indulgente».

Donzelli chiude con un impegno preciso: «Mi voglio augurare che
l'iniziativa sia la svista di una persona non abituata a confrontarsi
con la democrazia e con la politica qual è la Vicepresidente Targetti.
Se però si dovesse procedere con questa storia delle targhe sulle
classi, io mi impegno personalmente ad andare a staccarle una per una,
tutte e 93».

lunedì 16 agosto 2010

COMUNICATO STAMPA - DEGRADO NELLE PIAZZE DI RIFERDI

DONZELLI, MORETTI, CASTELNUOVO TEDESCO (PDL): «"CAMPING ROM" NELLE PIAZZE EMBLEMA DI DEGRADO E ABUSIVISMO»

 

«Le piazze fiorentine d'estate si trasformano in camiping abusivi per ROM, sbandati e clandestini. Nel quartiere cinque Piazza  della Vittoria e Piazza Dalmazia sono devastate dal degrado.

Il Sindaco Renzi in campagna elettorale aveva sbandierato un grande amore per Piazza Dalmazia, deliziandoci con i suoi racconti autobiografici di quando studiava al Dante e passava le giornate in quella Piazza. Oggi che Renzi è sullla poltrona, la piazza è abbandonata al degrado. In Piazza Dalmazia,  invece, quando la mattina si alzano i campeggiatori abusivi, nello stesso posto sorge il mercato alimentare; dove hanno dormito e urinato rom e abusivi si posano le casse della frutta e della verdura. Ci chiediamo con quale sicurezza sanitaria per gli acquirenti.»

Dichiarano il consigliere regionale Giovanni Donzelli (PdL), assieme ai consiglieri del Quartiere 5 Chiara Moretti e Guido Castelnuovo Tedesco.

«Diciamo basta ai "camping estivi" dei rom nelle piazze di Rifredi. Il Comune di Firenze e la Polizia Municipale affrontino di petto un problema così concreto e annoso», .

«Da troppo tempo le piazze del quartiere di Rifredi sono interessate dai bivacchi dei nomadi ed extracomunitari, che le hanno ormai adibite a dormitori ed a bagni pubblici a cielo aperto.

«In piazza della Vittoria  i nomadi si sono persino attrezzati con brande e coperte rinvenute nell'immondizia».

«Questa situazione degradante è però nota all'Amministrazione comunale. Già nell'aprile scorso l'Assessore al decoro, Massimo Mattei, nei suoi tanto fugaci quanto improvvisati sopralluoghi definiva la situazione di piazza Dalmazia come "problematica e bisognosa di interventi mirati" – proseguono Donzelli, Moretti e Castelnuovo Tedesco – senza che però nulla sia cambiato».

«Questi veri e propri "camping estivi" dei nomadi sono il simbolo di una città degradata, dove abusivismo, bivacchi e accattonaggio fanno da padroni durante la stagione calda. Il reparto antidegrado della Polizia Municipale, nonché gli invisibili "angeli del bello", rischiano davvero di divenire l'emblema dell'inefficacia della Giunta Renzi nella lotta alle zone degradate».

«L'assessore Mattei farebbe bene a mettere a punto una politica seria mirata alla qualità della vita – concludono Donzelli, Castelnuovo Tedesco e Moretti –, anziché fare stravaganti sopralluoghi dalla scarsa concretezza e dalla assoluta inefficacia, facendo sì che realtà come piazza Dalmazia e piazza della Vittoria siano quanto prima riportate al decoro. I fiorentini sono esausti del degrado».


Allegate 3 foto a riprova di quanto dichiarato

domenica 15 agosto 2010

Agosto 1944: Firenze e i franchi tiratori

Il sito dal quale è tratto il seguente articolo non è una pagina pregna di stancante reducismo e bieco revisionismo, bensì un centro di studio e documentazione sulla drammatica stagione della guerra civile. ( fonte: http://fondazionersi-roma.blogspot.com/ )

Marco della Redazione
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Curzio malaparte nell'ultimo momenti di vita dei "franchi tiratori" Fiorentini




" non trattero' la storia di Malaparte,ma da una sua testimonianza,dedichero' l'eroismo di alcuni giovani franchi tiratori di Mussolini,che catturati dalle formazioni partigiane ed esposti davanti alla folla fiorentina,sbeffeggiarono i loro catturandi,la folla e la morte che avveniva all'istante.Malaparte si trovo' lì,come corrispondente di guerra a seguito delle truppe anglo-americane,lasciando la sua testimonianza in un libro famoso dal titolo "la pelle".Infine si ringrazia F.Enrico accolla che grazie al suo libro "lotta su tre fronti" ne riporta l'eroismo di questi giovani fascisti.






Così Malaparte descriveva quella giornata fiorentina:


"I ragazzi seduti sui gradini di santa Maria novella,la piccola folla di curiosi raccolta intorno all'obelisco,l'ufficiale partigiano a cavalcioni dello sgabello ai piedi della scalinata della chiesa,coi gomiti appoggiati sul tavolino di ferro preso a qualche caffe' della piazza,la squadra di giovani partigiani della divisione comunista armati di mitra ed allineati sul sagrato davanti ai cadaveri distesi alla rinfusa l'uno sull'altro,parevano dipinti di masaccio nell'intonaco dell'aria grigia.Illuminati a picco dalla luce di gesso sporco che cadeva dal cielo nuvoloso,tutti tacevano,immoti,il viso rivolto tutti dalla stessa parte.


un filo di sangue colava giu' dagli scalini di marmo.










i fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni,dai capelli liberi sulla fronte alta,gli occhi neri e vivaci nel lungo volto pallido.Il piu' giovane,vestito di una maglia nera e di un paio di calzoncini corti che gli lasciavano nude le gambe degli stinchi magri,era quasi un bambino.


C'era anche una ragazza tra loro:giovanissima,nera d'occhi e dai capelli,sciolti sulle spalle,di quel biondo scuro che s'incontra spesso in toscana tra le donne del popolo,sedeva con il viso riverso,mirando le nuvole d'estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia,quel cielo pesante e generoso di qua e la' screpolato,simile ai cieli di masaccio sugli affreschi del Carmine...


l'ufficiale partigiano...tese il dito verso uno di quei ragazzi e disse:"tocca a te,come ti chiami?"."oggi tocca a me"-disse il ragazzo alzandosi,"ma un giorno o l'altro tocchera' a lei",-"come ti chiami?"-"mi chiamo come mi pare"-rispose il ragazzo-"o gli rispondi a fare a quel muso di bischero?" gli disse il suo compagno seduto accanto a lui.


"Gli rispondo per insegnarli l'educazione a quel coso!"-rispose il ragazzo,asciugandosi con il dorso della mano la fronte matida di sudore.Era pallido e gli tremavano le labbra.Ma rideva con aria spavalda guardando fisso l'ufficiale partigiano.


L'ufficiale abbasso la testa e si mise a giocherellare con una matita.Ad un tratto tutti i ragazzi presero a parlare fra di loro ridendo,parlavano con accento popolano di san Frediano,santa Croce,di Palazzolo.


"E quei bigherelloni che stanno a guardare?o non hanno mai visto ammazzare un cristiano?"-"e come si divertono quei mammalucchi!"-"li vorrei vedere vedere al nostro posto sicche' farebbero quei finocchiacci!"-"scommetto che si butterebbero' in ginocchio"-"li sentiresti strillare come maiali,poverini".


I ragazzi ridevano pallidissimi fissando le mani dell'ufficiale partigiano.


"Guardalo bellino,con quel fazzoletto rosso al collo"."o che gli e'?"-"o chi ha da essere:gli e' Garibaldi"-"quel che mi dispiace"-disse il ragazzo-"gli e' d'essere ammazzato da quei bucaioli!"-"un la far tanto lunga,moccione"-grido' uno dalla folla."se l'ha furia venga al mio posto"- ribatte' il ragazzo ficcandosi le mani in tasca.


L'ufficale partigiano alzo' la testa e disse:


"Fa presto!non mi far perdere tempo.Tocca a te.".-"se gli e' per non farle perdere tempo"-disse il ragazzo con voce di scerno-"mi sbrigo subito" e scavalcati i compagni ando' a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra,accanto al mucchio di cadaveri,proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.


"Bada di non sporcarti le scarpe!"-gli grido' uno dei suoi compagni;e tutti si misero a ridere...


il ragazzo grido':"viva Mussolini!" e cadde crivellato di colpi"


F.Enrico accolla conclude...


"la storia e' grata a Curzio Malaparte,antifascista,al seguito delle armate anglo-americane,per la testimonianza di tanto sprezzante coraggio da parte di quei "repubblichini".


anche io rimango impressionato per tanto coraggio,fierezza e affronto di questi giovani ragazzi,che Firenze non li volle piu’ in vita perche' erano dei vinti."



Tratto da www.libridecimrsi.blogspot.com

giovedì 12 agosto 2010

Comunicato stampa Giovane Italia/Azione Universitaria Firenze

Salve
in allegato(e di seguito) il comunicato stampa e le fotografie della manifestazione all' Aeroporto di Fiumicino contro il turismo pedofilo.
 
Distinti saluti
                                                                                                                                                                        
 
                     Matteo Fanelli
dirigente di Firenze
movimento politico universitario Azione Universitaria/Giovane Italia
tel: 333-6498516
 


GIOVANE ITALIA FIRENZE

 

 

 

COMUNICATO STAMPA

 
Azione Universitaria e Giovane Italia ( PdL) Firenze manifestano nell'Aeroporto di Fiumicino

 

 

"STOP AL TURISMO PEDOFILO – E SE QUEL BAMBINO FOSSI TU?" con questi slogan alcuni militanti di Giovane Italia Firenze, insieme a rappresentanze di altre città dello stesso movimento, hanno compiuto un blitz presso lo scalo internazionale di Fiumicino distribuendo volantini contro il fenomeno in aumento del turismo pedofilo in molte mete esotiche.

"Un paese che si dichiara civile non può permettere che nel mondo 10 milioni di minorenni, adolescenti ed addirittura bambini, siano costretti a trasformarsi in cavie per il piacere di adulti, spesso padri di famiglia o cittadini insospettabili, che pensano di poter soddisfare il proprio desiderio forti di una condizione di ricchezza e dall'impunità garantita da migliaia di chilometri di distanza da casa" dichiarano a margine della manifestazione Giovanni Donzelli, presidente nazionale di Azione Universitaria e consigliere regionale della Toscana e Cosimo Zecchi, dirigente nazionale toscano di Giovane Italia.

" Questo blitz estivo è un'azione simbolica che segna l'inizio di una serie di campagne territoriali e nazionali di Giovane Italia proprio sui diritti civili e contro la pedofilia e la per la difesa dei minori " affermano sempre Zecchi e Donzelli.

" Auspichiamo – aggiunge Matteo Fanelli, dirigente fiorentino del movimento giovanile del PDL  - che tutti i Governi prevedano pene più severe per chiunque si macchi del reato di pedofilia e che molte mete esotiche tornino ad essere dei paradisi terrestri per la bellezza dei propri mari e delle proprie culture millenarie e non più inferni terreni per quei milioni di bambini che oggi sono carne da macello per attirare turisti senza scrupoli"

martedì 10 agosto 2010

Berto Ricci: come fummo giovani allora (I Parte)

fonte: http://www.beppeniccolai.org


Berto Ricci è fiorentino, poeta, polemista, matematico, cade a Bir Gandula, Cirenaica, il 2 Febbraio 1941. Aveva 35 anni. In che cosa credeva? Nelle strutture politico-brurocratico-amministrative di cui è fatto uno Stato? Nel Palazzo, si direbbe oggi? Berto Ricci credeva nell’Italia, e per dirla con le parole di Dino Garrone, e che Berto Ricci mise nella sua prefazione alle lettere di Garrone stesso, scomparso anche lui giovanissimo all’età di ventisette anni, l’Italia la vedeva e la sognava così: «l’Italia dura, taciturna, sdegnosa, che portava la sua anima in salvo soffrendo delle contraffazioni, dei manifesti, dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati, dei commendatori. L’Italia che ci fa spesso bestemmiare perché la vorremmo più rigida, più attenta, più macra: vicino alla perfezione dei santi».
Dell’amico adorato, scrittore e poeta come lui, Berto Ricci tracciò questi lineamenti:




«Non cercò carriera, non ebbe fini effimeri, non comuni ambizioni. Ebbe vita interiore potente, soverchiante la esteriore pur così varia, popolata di fatti e di figure e accesa di passioni. Soffrì d’ogni menomazione inferta dalla debolezza propria o altrui (…) una coscienza senza sogno (…) un volere il sole, in sé e negli uomini il sole (…) un gioire e un soffrire coi paesi e con le acque, con la gente e i libri, con tutto quello che noi siamo (…) Il rispetto per l’uomo, la sua umiltà dinanzi al fratello ignoto e qualunque,così bella se guardata sullo sfondo della formidabile capacità di disprezzo che era in lui, dicono com’egli fosse alto e solo. Risultava da tutto questo, dall’amore, dal disdegno, dall’ingegno, dalla dominante e assillante pretesa d’assoluto, una magnetica giovinezza, di quelle che fanno esclamare: bella questa moneta nuova, e quanto val più dell’altre usate e tosate. E giovane è rimasto in morte, sull’invecchiare veloce di molti vivi».

Così Berto Ricci di Dino Garrone.



Potremmo scrivere: «così Berto Ricci di Berto Ricci».



La prefazione alle lettere di Dino Garrone è del ’38, ma Berto Ricci resta una colata di vita:



«E giovane è rimasto in morte, sull’invecchiare veloce di molti vivi».



Lo potremmo scrivere sulla tomba di Berto. E nessuno meglio di lui, a cui è toccata la sorte di vivere questa scettica e cinica Italia, sa e conosce la verità di quella frase: «e giovane è rimasto in morte sull’invecchiare veloce di molti vivi».
Berto Ricci fu un’intelligenza viva, libera, sanguigna, spregiudicata, strafottente e spavalda. Il suo foglio "l’Universale" è destinato a restare. Berto Ricci fu carattere, che altro non è che il coraggio civile. Berto Ricci, nel tempo di Mussolini e della sua dittatura, fu faziosamente, come può esserlo un fiorentino, controcorrente, contro, su ogni cosa, il moderatismo, i tecnici del saper vivere e del saper fare. Per dirla con termini della grigia politica di oggi, fu l’antidoroteo, fu l’antimoroteo per eccellenza.
In una sua poesia, "Inno a Roma" del ’33, è detto: «Oh i buoni servi non sono degni di Roma, non gli immoti e i pigri, ma i liberi, gli inquieti, quelli che simili a praterie che inarca il vento delle folli ambizioni».

«Pederasti e ladri», scriverà nel ’31 su "Lo scrittore italiano", «possono esser grandi d’arte, e furono i piccoli cercatori d’applausi, cacciatori di recensioni e di premi, romanzieri stipendiati dal pubblico, no in nessun modo. E se parrà enorme a qualcuno questa mia affermazione, da non poterla digerire, e’ se la sputi. Già ho notato la preminenza dello spirituale sul morale, della divinità sulla onestà: e con questo non vo’ dire che pederasti e ladri sono divini; ma più vicini a Dio, forse, dei frigidi astuti savi e delle canaglie moderate».
Più vicini a Dio dei frigidi savi e delle canaglie moderate…
Giugno 1931. Fascismo e Azione Cattolica si fronteggiano. Sono passati due anni dal Concordato. Motivo del contrasto: l’educazione dei giovani. Berto Ricci su "l’Universale" titola: "Il duello col Papa" e trancia questi giudizi:



«Diciamolo francamente: noi non ci spaventeremmo di un clero macchiato di lussuria, di simonia, di ferocia, quanto ci preoccupa questo esercito d’impiegati in tonaca, irrimediabilmente malati di mal borghese. È nel peccato una grandezza, un principio forse di santità: nell’inerzia dei borghesi e dei mediocri non c’è che buio».



«(…) Venga presto, per il bene della cristianità, un papa gagliardo, rivoluzionario, che sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi...





[incomprensibile, coperto dagli applausi]



..., lasci alle donnacole le polemichette puntigliose, riporti nel mondo l’alito del Vangelo, riceva sì i pellegrini d’America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere ed entri il vicario di Cristo nelle case di San Frediano».





C’è qualcuno nell’Italia democratica e repubblicana, uscita dalla Resistenza, che mi sappia indicare, da qualche parte, un polemista di questa vaglia, polemista, fatene caso, che così si esprimeva negli anni del diavolo del cavalier Benito Mussolini?





«Questo ci preme, questo vogliamo dire: questo nessuno può smentire, che gli eunuchi, i vili i pigliaschiaffi disonorano il fascismo, che i saggi in cappa magna lo inceppano, i noiosi teorici della tradizione gli fanno perdere tempo, gli adulatori lo avvelenano, i bruti spiritati dal gesto dittatorio e dagli occhi grifagni lo mettono in farsa, e l’Italia del popolo, l’Italia di Basso Porto e di via Toscanella, essa sola lo alimenta di vita, e questo non è classismo, non è bolscevismo, perché non importa essere nati in via Toscanella né starci. Quel che conta è saperci stare».



È il 12 Aprile 1931: la Spagna è repubblicana. Re Alfonso XIII, l’ultimo dei Borboni, lascia Madrid e prende la via dell’esilio. Su "l’Universale" del Maggio ’31, Berto Ricci scrive:



«Sommo errore politico, oltre che pessima romanticheria di maniaci del principio monarchico universale, sarebbe fare il broncio alla nuova Spagna repubblicana. Né i dogmi democratici dei successori di re Alfonso possono interessarci gran che: c’interessa la loro politica estera e la posizione del loro paese nel Mare Mediterraneo. Venendo poi a considerare in sé questo sbrigativo, ma atteso, invocato e guadagnato mutamento di regime, non si può dire che la monarchia sia stata molto benemerita di quella nazione. Che fruttarono alla Spagna i suoi secoli di obbedienza e di fedeltà al trono? Una lunga, atona agonia, una dittatura senza genio, un parlamentarismo senza sale, una lenta rovina di commerci e d’imprese. Ogni scossa è santa se giova a scuotere dal sonno e dall’ozio i popoli forti. D’altra parte i ribelli spagnoli hanno mostrato negli ultimi tempi di saper guardare in faccia con abbastanza tranquillità i plotoni d’esecuzione: e un’idea capace di preparare gli uomini alla morte merita vittoria, merita rispetto nell’Italia del comandante Umberto Maddalena». (maggio 1931)

[...]

venerdì 6 agosto 2010

Riprendiamoci (a destra) gli anni '60

Gli anni Sessanta? È arrivata l'ora del dietrofront. Vanno archiviati. Rimossi. L’offensiva revisionista stavolta parte da sinistra e gli spari già risuonano nel palinsesto televisivo. I primi caduti? La fiction Raccontami, epica pop dei Sessanta. Negli ultimi due anni ha messo a sedere – davanti al piccolo schermo, of course – le famiglie italiane. Eppure, sembra destinata a non sopravvivere alla fine della sua seconda stagione. Malgrado il successo di pubblico e nonostante le proteste. Truppe irregolari di telespettatori si stanno infatti mobilitando: migliaia di mail “marciano” sulla Rai. Un’intifada destinata a soccombere. Perché la decisione sembrerebbe – il condizionale è d’obbligo – presa. La famiglia Ferrucci (i protagonisti della serie in questione) sarà sciolta e i singoli interpreti destinati ad altre imprese televisive.




Prepariamoci pertanto a fare a meno di quest'ultimo romanzone popolare capace di “raccontare”, con piglio più cinematografico che meramente seriale, l’epopea di un paese che si lasciava definitivamente alle spalle il dramma della guerra e si proiettava a tutta velocità in un futuro ricco di cambiamenti e promesse. Non tutte mantenute. Ne sa qualcosa il capofamiglia Luciano Ferrucci. L’esplodere del conflitto l'aveva costretto a interrompere gli studi per poi farsi capocantiere per la ditta di un ex camerata. Potrà prendersi il sospirato diploma da geometra e inventarsi imprenditore ma i guai non mancheranno, né a lui né all’Italia. Un ruolo cucito a misura per il bravissimo Massimo Ghini, attore di sinistra – ci si passi il gioco di parole – poco amato, però, a sinistra. Già. Oggi come ieri c’è poca voglia di leggerezza, da quelle parti. L'ottimismo? Troppo destrorso, retorico. Tutto sommato, un po' berlusconiano.


E a puntare il dito contro «la sinistra snob» è lo stesso Ghini, reo di aver dato il volto – il suo – alla più recente commedia brillante italiana. «Dopo il primo film natalizio – si è sfogato in una intervista rilasciata al Corriere della Sera – sono stato considerato un traditore. Mi hanno persino chiesto se avessi cambiato idee politiche». Aveva due risposte possibili, ha spiegato: «La parolaccia o parliamone. Ho deciso di parlarne». A distanza di qualche giorno, però, il j’accuse di Ghini non ha ricevuto risposta e il futuro della fiction è ancora avvolto nel mistero. La verità – azzardiamo noi – è che qualcuno a sinistra si è forse reso conto che l'epopea degli anni Sessanta non era poi così funzionale alla celebrazione della loro parte politica e culturale. Malgrado Walter Veltroni e il suo immaginario, tutto anni Sessanta.


D'altronde da qualche tempo in giro c'è davvero tanta voglia di anni Sessanta. Ha detto Franco Battiato: «Le canzoni italiane degli anni '60 possedevano malinconia, ispirazione e felicità. Si veniva da una guerra devastante. E pur fra i problemi, c'era gioia di vivere». Non si tratta, quindi, solo del vintage che alimenta un sempre florido merchandising – dal ritorno dei dischi in vinile alle mitiche figurine Panini – ma dello spirito autentico dei Sessanta, recentemente riecheggiato anche nelle parole di Gianfranco Fini e individuato da Angela Merkel come decisivo per lo svilupparsi del boom economico tedesco e del modello di economia sociale di mercato. Tanti i lati positivi. Ne ha elencati alcuni il presidente della Camera nel convegno organizzato dalla fondazione Liberal di Ferdinando Adornato: «L'ottimismo, il desiderio di cambiamento nel costume, la rivolta generazionale e la partecipazione delle donne». Prima del trionfo delle ideologie e del tradimento di quelle speranze. Un’analisi lucida che sottolinea come, solo per l’incapacità della destra politica italiana di allora nell'ascoltare i giovani, si finì con lo spalancare un’autostrada all’egemonia della sinistra lasciando che prevalessero – per usare le parole della cancelliera tedesca – «le frange autoritarie e intolleranti del ’68».


L'ansia di cambiamento, da allora in poi, è stata raccontata come cosa loro e iscritta nell’immaginario della sinistra. Dai Beatles al Giovane Holden, da Charles Bukowski a Jim Morrison, ma anche Kennedy e Papa Giovanni, non c’è icona d’importazione che sia sfuggita a questa gigantesca mistificazione. Un equivoco colossale su cui nel corso degli anni si è sedimentata una memorialistica a senso unico. Un’appropriazione indebita che ha finito per trasformare una memoria condivisa nel patrimonio esclusivo di una sinistra immaginaria.


Tutto nasce con il libro, indubbiamente bello, Il sogno degli anni ’60 (edito da Savelli nel 1981) di Walter Veltroni, già allora abilissimo a confondere passioni private e generazionalmente trasversali con un’eredità politica di tutt’altra natura e storia. L’allora ventiseienne consigliere comunale – eletto a Roma nella lista del PCI – raccoglieva il ricordo di 46 ex giovani: da Renzo Arbore a Francesco Guccini, da Lucio Dalla a Gianni Borgna. Scriveva Veltroni: «Gli anni Sessanta sono stati un decennio di grande movimento, di rottura delle assolute certezze, della rigida immobilità dei Cinquanta. Un grande ribollire di stimoli culturali, di suggestioni politiche, di riferimenti letterari veramente nuovi... L’intreccio dell’accesso alla scuola di massa e dell’affermarsi del mezzo televisivo rivoluzionò la grammatica della fantasia di una generazione. Si dilatava la gamma delle conoscenze, si entrava in diretto rapporto con la realtà, si rompeva con il provincialismo un po' cafone dell’italietta anni Cinquanta...». E ancora: «Gli anni Sessanta. Un corsa in spider, una svedese al fianco, uno scherzo all’amico, una cotta improvvisa. Un viaggio, la scoperta di Londra o Parigi, un disco di Yellow Submarine. Un pattino, un ombrellone, un transistor acceso, una partita di pallone al tramonto. Una spiaggia tranquilla, un juke-boxe che suona, un po’ gracchiando, una canzone di Francoise Hardy». Peccato che questo quadretto idilliaco, di lì a qualche anno, venne fatto a pezzi proprio dalla sinistra con la pretesa di dare un segno ideologico a quella genuina ansia di cambiamento. A un vecchio conformismo ne subentrò un altro persino più intollerante che riduceva la rivolta generazionale a una banale questione di look e moschetto.


Ne sanno qualcosa i protagonisti musicali di quella stagione, coloro che ne hanno determinato la colonna sonora. Uno su tutti: Edoardo Vianello, i cui successi sono stati recentemente raccolti in Replay, un cd la cui copertina è stata affidata a Pablo Echaurren, genio eclettico oltre che vero e proprio fan di Vianello. E le sue canzoni allegre e frizzanti sono state – e continuano a essere, in barba al tempo che passa – il leitmotiv per eccellenza di intere generazioni di italiani, la benzina inesauribile dell’ottimismo contagioso dei Sessanta. Da Pinne fucili e occhiali a Guarda come dondolo, da Abbronzantissima ai mitici Watussi. Ecco, lui e la sua musica negli anni Settanta, il successivo decennio tutto plumbeo e tutto ideologico, venne messo al bando perché – sostenevano – le sue canzoni, in quanto leggere, scanzonate, vitaliste, andavano ritenute non impegnate, quindi superate. Proprio così. Se un cantante esprimeva l'ottimismo dei ragazzi del proprio tempo invece di mettersi al servizio delle cause della sinistra veniva iscritto d’ufficio nel registro dei renitenti. «Abituato com’ero al calore del pubblico ci rimasi malissimo – ci ha raccontato lo scorso giugno, in occasione del suo settantesimo compleanno – ma io intendevo la musica come un fatto di divertimento collettivo e come espressione dello stato d'animo generazionale, non come strumento per fare politica e non sarei mai stato credibile a improvvisarmi cantautore cosiddetto impegnato».


Analoga l'analisi di Don Backy, protagonista di una originale via italiana al beat e autore di canzoni cult come Poesia e L’immensità che – non a caso – insieme ad altre fanno da colonna sonora a Raccontami. Oltretutto Don Backy, insieme a Ricky Gianco e Detto Mariano, è l'autore del testo della stessa sigla della fiction riarrangiata da Vince Tempera. Ma lo spirito guascone, giovanilistico ed estetico dell’artista toscano era, in quegli anni, ben diverso da quello degli pseudorivoluzionari che affolleranno i cortei nel decennio successivo. «Io avevo ben altro per la testa – ci ha confidato – e Curcio, Capanna, Negri e nipotini vari volevano solamente andare al potere. Il nostro era un essere contro in ogni caso». Da allora la sua principale preoccupazione, come ha scritto nell’ultimo libro – Questa è la storia… Memorie di un juke box (Coniglio Editore, pp. 256, € 29, 50) – è di far sopravvivere lo spirito autentico di quegli anni, di salvare le sue canzoni dalla marea ideologica che montava a sinistra. «Le sue canzoni non ne furono contagiate – scrive in terza persona – la creatività non doveva essere gettata all’ammasso, circoscritta e in ostaggio di aggettivi: impegnata, di contestazione, di protesta o di convenienze e anticonformismi di maniera». E probabilmente per la schiettezza delle sue dichiarazioni Don Backy ancora oggi viene sistematicamente ignorato da un certo circuito mediatico. «Quando non si è allineati non si esiste per i salotti e gli ambienti che contano. Va avanti solo chi è omologato, chi ha le idee in linea». Per lui quasi nessun invito in tv. Neanche a trasmissioni dedicate alla musica degli anni ’60-’70 come Canzonissime, Ti lascio una canzone o I raccomandati. Figuriamoci il Festival di Sanremo, cui si è recentemente proposto per vedersi sbattere la porta in faccia da Pippo Baudo.


Intendiamoci, a ricevere tale trattamento non furono soltanto i cantanti ma tutti gli artisti che non vollero farsi allinearsi. Basti pensare a Franco e Ciccio, definiti dall’indimenticato Giuseppe Moccia, in arte Pipolo, «i rappresentanti per eccellenza dell’Italia prorompente, vitale e con voglia di fare degli anni Sessanta». La loro comicità schietta e contagiosa richiamava nelle sale adulti, ragazzi e bambini. Eppure la critica ideologizzata continuerà a considerarli poco più che fenomeni da baraccone. Tra le poche voci controcorrente, quella di Valerio Caprara: «Inutile aggiungere che meno amavo le isterie gauchistes (che, pure, hanno preso il potere nel campo dei sacerdoti della critica) più simpatizzavo con la morfologia artistica di Franchi e Ingrassia, la cui docta ignorantia mi sembrava di gran lunga più lucida della ignoranza tout court dei lanzichenecchi rossi e rosa di Cinecittà e dintorni. Il cinema ‘nobile’ era costituito, per costoro, da alcuni ignobili sottoprodotti gabellati per ‘ideologici’ e progressivi. Per fortuna il popolo (quello vero, quello che si esalta al Mundial e prende a pomodorate le reprimende dei sociologi) invertiva puntualmente i canoni del sotterraneo Minculpop e premiava gli sforzi autarchici, generosi, fisici dei due attori in barba agli appelli auto-mortificanti dei pretini sub-marxiani».


Comunque, ultimamente, sugli anni Sessanta – finalmente letti senza le lenti deformanti dell’ideologia – sono arrivati in libreria due saggi che meritano tutta l’attenzione possibile: il primo è Boom. Storia di quelli che hanno fatto il ’68 (Rizzoli, pp. 255, € 16,50) del sociologo Fausto Colombo e rompe un tabù: che a raccontare i Sessanta debbano necessariamente essere i militanti ideologici del decennio successivo. Perché esserselo perso è imperdonabile, anche per chi è nato troppo presto o troppo tardi. E Colombo, cinquantenne studioso dei media e docente all’università Cattolica di Milano, si prende la briga di affrontare con una scrittura godibile e ricca di aneddoti la storia dei baby boomers, un popolo di neonati che ha compiuto o sta per compiere cinquant’anni, dieci milioni di piccoli italiani che in quegli anni Sessanta reali cresceranno in case fornite di frigorifero, lavatrice e tv, imparando che dopo Carosello si va a nanna e che un giornalino e una partita di calcio possono fare la storia.


Già, il grande calcio che proprio in quegli anni diventa un fenomeno planetario e nel nostro Paese è passione diffusa, agisce da contagio e si fa moda, costume, immaginario condiviso. Ed ecco il secondo saggio, del milanese Marco Innocenti: Quando il calcio ci piaceva più delle ragazze (Mursia, pp. 240, € 18,00). È quanto accadeva negli anni Sessanta, perché i ragazzi studiavano, contestavano, s’innamoravano, ballavano, ma soprattutto impazzivano per lo sport nazionale e declamavano le formazioni delle squadre amate come versi di una poesia. E infatti il libro di Innocenti – giornalista del Sole 24 Ore e autore di altre pubblicazioni tra cui Sognando Meazza. Come eravamo negli anni Trenta (Mursia, 2006) – prima ancora che essere un omaggio al calcio, racconta meglio di qualsiasi testo sociologico la società italiana di quel decennio attraverso i miti e i riti sportivi che hanno segnato una generazione molto più dell'ideologia, spesso postuma. Fortunatamente. Leggiamo, quindi, quelle pagine e torniamo a riprenderci i nostri - e veri - anni Sessanta.






Fonte: http://robertoalfattiappetiti.blogspot.com/2009/01/riprendiamoci-destra-gli-anni-60.html

giovedì 5 agosto 2010

TINTO BRASS TORNA ALL'ORIGINE DU MONDE

tratto da: www.nocturno.it (rivista cinematografica) - di Manlio Gomarasca


Tinto Brass ci parla del suo corto, Hotel Courbet, presentato all'ultima Mostra del Cinema di Venezia...


Non troppo tempo fa su Nocturno abbiamo dato notizia del tuo ultimo cortometraggio, Kick the Cock, presentato a Venezia Off. Oggi siamo qui per presentare un altro tuo corto, Hotel Courbet, realizzato questa volta per Sky…


Come dice il titolo stesso è un omaggio a Gustave Courbet e al suo L’origine du monde. L’ho fatto per il canale Fox di Sky. È come sempre all’apparenza una cosa senza senso e invece io lo trovo molto gratificante e molto bello. È la storia di una ragazza con delle manie compulsive, compra cose... che rievoca una torrida avventura parigina con un ragazzo francese in questo Hotel Courbet sotto l’impronta del famoso quadro.


C’è anche un omaggio molto bello a La camera azzurra di Simenon, con lei a gambe aperte e un filo di sperma che le esce dalla fica e la mosca che le si appoggia sopra. Ho fatto delle foto grandiose, sono quelle che ti ho mandato, impubblicabili per altri che non siano Nocturno…


Comunque, la storia col francese finisce male, lui la molla, le dice di tornare in Italia e lei rimane sola in questa stanza piena di ricordi che erano stati suggeriti dal fatto che lei si provava i vestiti di fronte alla toilette, mettendosi la crema detergente sul viso, e pian piano trasformandosi in una specie di Pierrot, di clown. Sfinita, si butta sul letto, culo per aria e faccia sotto, ed entra un ladro. Il ladro si aggira in questa stanza, ruba delle cose e poi si accorge di questo bellissimo culo sul letto. Per un attimo è indeciso e si dice: «cosa faccio? Rubare o violare?». Preferisce rubare. Però casca un gioiello e lei, sentendo il rumore, si sveglia dal torpore e comincia a masturbarsi per scacciare il magone erotico che aveva… Una bellissima masturbazione consumata sotto gli occhi del ladro nascosto. Il ladro scappa, ma tra le cose che ha rubato c’è pure una fotografia della ragazza nuda in una cornice d’argento. Tentato da quest’ immagine torna indietro e suona il campanello. Appare la ragazza con una bella vestaglia rossa, la stessa che aveva nella fotografia, e lui le dice una battuta in stile scespiriano: «la bellezza tenta il ladro più dell’oro», un po’ alla “As you like it” – “Come vi pare”. Ma lei sorridendo gli prende il sigaro, se lo mette in bocca, e dice: «Ma non si può rubare», e se ne va. Poi appaio io in fondo alla macchina da presa e dico una battuta di Picasso a proposito del quadro di Courbet: «L’arte non è mai casta; se lo è non è arte!».






Parliamo degli attori…


La ragazza è Caterina Varzi, la protagonista che avevo scelto per Ziva, il prossimo film che voglio fare e di cui ti ho già parlato nella precedente intervista. Una vera rivelazione, non tanto per il corpo ma per l’intensità – per dirla come dicono i francesi – tragedienne, che sta a significare non la tragedia ma proprio lo sguardo intenso, difficile da reggere. Nella parte dell’amante francese, invece, ho inserito una chicca scandalosa, suo fratello Vincenzo Varzi, e poi un certo Alberto Petrolini, che fa il ladro ed è un playboy notturno, un giocatore di poker di Parma che conoscevo da anni.






E dove l’hai girato?


L’ho girato a Bassano Romano. La stanza della ragazza che si spoglia, si rimette i vestiti e si masturba, in una bella villa di Bassano, mentre in teatro ho ricostruito la camera azzurra con la scritta fuori dalla finestra “Hotel Courbet”.






Quindi dovrebbe rientrare in un progetto di Sky?


Che si chiama “Il favoloso mondo di Tinto Brass”; l’immagine è il culo di una donna con impresso il mappamondo. Questo è il pilot della serie che dovrebbe essere composta da sei o dodici episodi diretti tutti da me. Ce ne sono alcuni bellissimi, uno che riguarda D’Annunzio, la vigilia della partenza per Fiume, quando aspetta questa sua fan che deve venirlo a trovare. Hotel Courbet lo voglio mandare anche a Cannes nella sezione dei corti ma devo ridurlo a 15’.










Come ti trovi all’interno della dimensione del cortometraggio?


Bene, mi diverto molto a farli. Apparentemente sono cose senza senso, invece queste antologie ti permettono di sperimentare molto di più di quando fai un film, perché non sei legato ad un unico discorso di un’ora e mezza, puoi provare una cosa, cambiarla, e poi possono essere raccolte in antologia. Volendo possono diventare film a episodi da pubblicare in DVD. Poi, adesso, nell’impossibilità di girare un film come vorrei, da Ziva o Vertigini, un film sull’eutanasia che in questo momento sarebbe attualissimo dopo tutte le puttanate che abbiamo sentito a proposito di Eluana. Hai visto cosa ha fatto Vanessa Redgrave? Due giorni dopo che la figlia aveva battuto la testa è andata in America e ha staccato la spina. Queste sono cose dignitose, umane, non queste chiacchiere che riempiono i televisori e basta! Quando studiavo si parlava di quello che era importante: Virgilio e la pietas. La “pietas” dei latini non sanno più che cos’è, questa stava in coma da sette anni, ma la pietas per questa persona, cazzo, dove la mettiamo?






Che fine ha fatto il progetto DNA?


Il progetto è sempre quello che avete pubblicato su Nocturno nel Dossier a me dedicato. Ora lo voglio fare con Franco Branciaroli a teatro. In scena ci sono solo tre personaggi. C’è T che è rinchiuso in manicomio e vive una vita immaginaria più reale della vita vera attraverso l’esercizio costante della masturbazione. Questo si masturba, e masturbandosi evade dalla sua condizione di recluso in manicomio, dalla logica, dalle regole e dalla morale. Gli altri personaggi sono la Donna, che rientra in tutte le sue epifanie: la puttana, la crocerossina, la suora ecc., e che in realtà è la madre. Tutte figure interpretate da un’unica attrice. E poi c’è il direttore del manicomio, nonché il padre che vorrei fare interpretare a un nano. La figura del nano è una figura alla quale sono molto legato e ho spesso usato nei miei film, perché è l’elemento surrealista per eccellenza, magico e al di fuori degli schemi.






Quando vorresti rappresentarla?


Inizialmente si trattava di fare un teatro cinetico, visto che ci troviamo in un periodo di futuristi, con delle scene in teatro, che sono tutte quelle della cella e del manicomio, e tutte le “epifanie” da girare a parte in HD e poi proiettarle su una retina che cali sul proscenio. Il progetto lo avevo presentato a Spoleto. Gli avrei portato Branciaroli, il più grande attore teatrale, ma questi stronzi sono andati a prendere Woody Allen per fare una cagata che hanno pagato a peso d’oro… Poi dicono che non hanno più soldi. Ma come? Vi porto uno spettacolo molto interessante con Franco Branciaroli, un omaggio al futurismo… era un evento vero. Ma andate a cagare! Allora sto cercando di farlo direttamente per il DVD senza il teatro. Del resto ormai in tutto il mondo i fatturati veri arrivano dall’home video. La sala non esiste più.