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martedì 14 settembre 2010

S-21, LA MACCHINA DI MORTE DEI KHMER ROSSI.

Di seguito una bella recensione del nostro amico Julius, redattore particolarmente interessato ad argomenti che riguardano la storia dimenticata di popoli e paesi rimasti, in tempi non sospetti, vittime di guerre interne e totalitarismi.

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Autori: Rithy Panh, Christine Chameau.

“La ruota della Storia avanza. E’ impossibile impedirle di passare senza essere schiacciati”. SLOGAN DEI KHMER ROSSI.

Il 17 aprile 1975 i Khmer Rossi, ovverosia le milizie rivoluzionarie di Pol Pot , prendono il potere in Cambogia occupando la capitale Phnom Penh. Lo scopo delle armate comuniste è quello di realizzare nel più breve tempo possibile “il grande balzo in avanti del paese”. Pol Pot, leader supremo del nuovo regime, è deciso a riorganizzare con la forza l’intera società cambogiana avvalendosi della spietata decisione dei suoi sottoposti che non esiteranno a compiere efferatezze d’ogni genere pur di realizzare “la prima rivoluzione socialista perfetta”. La conseguenza della volontà pseudo-marxista di abbattere una società per poi ricostruirla secondo i suo ferrei dettami è che in tutta la Cambogia gli abitanti delle città vengono trasferiti nelle campagne in campi di lavoro costituiti apposta per rieducare le persone “deviate”. I cittadini sono chiamati i “17 aprile” o “il popolo nuovo”, epiteti dispregiativi usati per designare le persone che non avevano preso parte alla guerriglia e che quindi dimostravano di essere “inquinate” dalle influenze straniere (ricordiamoci che la Cambogia era stata sotto i francesi).

Dal 1975 al 1979 i ritmi di lavoro infernali stabiliti dai dirigenti della dittatura e le inarrestabili esecuzioni sommarie porteranno alla morte circa 2 milioni di cambogiani. Di questi, ben 14.000 sono stati torturati e giustiziati dai membri dell’ufficio di sicurezza nazionale S-21, situato in un ex-liceo della capitale Phnom Penh. Questo organo del regime era posto agli ordini diretti del Comitato Centrale e aveva l’incarico di estorcere ai detenuti ammissioni di sabotaggio nei confronti del Partito e della sua “missione modernizzatrice”.

Ma come funzionava l’S-21? Il libro risponde al quesito riportando le testimonianze dei pochi sopravvissuti e di alcuni ex- carcerieri.

-IL LIBRO-

L’ARRIVO.

Ogni giorno all’S-21 arrivavano camion carichi di prigionieri. La procedura era sempre la stessa: gli sventurati venivano bendati e fatti scendere dall’automezzo; i Khmer Rossi li facevano sedere per terra, li interrogavano sul luogo di provenienza e sul loro lavoro. Successivamente le guardie legavano una corda al collo dei prigionieri e li conducevano senza troppi riguardi nei meandri del carcere. La camminata incerta dei prigionieri era motivo di scherno, chi cadeva riceveva calci. Ad un certo punto i prigionieri venivano fatti fermare per far delle foto che sarebbero servite a compilare i loro dossier. In questa circostanza i detenuti dovevano sdraiarsi per terra e non potevano muoversi fino al termine dell’operazione. Chi si alzava senza autorizzazione veniva preso a bastonate.

-PRIVAZIONI E TORTURE-

Quando i prigionieri arrivavano erano persone normali, di costituzione sana, ancora in carne. Dentro il carcere imparavano a conoscere il significato della parola “Fame”. La nutrizione era scarsissima, irrisoria, e l’apporto di vitamine nullo. Ai detenuti veniva elargita acqua di bollitura di riso (!) due volte al giorno. In tali condizioni i prigionieri pur di nutrirsi un minimo erano disposti a mangiare qualsiasi cosa; la disperazione rimuoveva qualsiasi freno inibitore. Narra Nath, uno dei sopravvissuti all’S-21: << … A volte, la notte, la luce attirava gli insetti. Cadevano qua e là. Noi li prendevamo piano piano e li mettevamo in bocca. Ma se il guardiano ci sorprendeva, entrava, si toglieva la scarpa e ci dava tre o quattro colpi sulle orecchie. Perdevamo conoscenza. L’insetto ci usciva di nuovo dalla bocca. I nostri occhi diventavano blu, quasi sanguinavano …>>

La fame, purtroppo, era solo un aspetto dell’inferno chiamato S-21. L’ottusità e la violenza dei comunisti cambogiani raggiungevano l’apice negli interrogatori che venivano regolarmente svolti con brutale decisione dall’aguzzino di turno.

I detenuti venivano interrogati singolarmente. Bendati e con le mani legate dietro la schiena erano condotti in disadorne stanze munite soltanto di una sedia e di un tavolo con annessi fogli su cui scrivere la propria confessione. Il carcerato veniva fatto sedere, gli veniva messo un ceppo ai piedi che poi era fissato al tavolo. Dopodiché, tolta anche la benda, per prima cosa veniva picchiato in modo che fosse più propenso a parlare. Subito dopo iniziavano le domande. Del tipo: <>. E altre amenità del genere. Il detenuto in tutta sincerità rispondeva di non sapere nulla, che non aveva contatti col nemico, che non era una spia, ma questo era il tipo di risposte che non piaceva ai carcerieri. Indottrinati com’erano davano per scontato che se uno era finito all’S-21 era sicuramente un pericoloso sovversivo. Quindi era abituato a mentire. Quindi andava picchiato. I calci e i pugni, come pure le bastonate, non risparmiavano nessuno. Inoltre le torture non finivano con un solo interrogatorio, il malcapitato doveva subire altre sessioni finché non confessava, dipendeva solo dalla sua forza di volontà. Poteva anche essere rinterrogato perché alcuni passi delle sue dichiarazioni risultavano oscure ai vertici. E i carcerieri non si ponevano limiti di tempo. Per fiaccare l’animo dei detenuti ricorrevano a qualsiasi pratica: si sa di prigionieri che hanno conosciuto la frusta sulla pelle della loro schiena o che hanno sperimentato il terrore di essere quasi soffocati con dei sacchi messi in testa. Per non parlare dell’uso sistematico degli elettrodi che ha segnato nel corpo e nella mente tanti cambogiani innocenti. La diffusa pratica di strappare le unghie delle mani e dei piedi, poi, quasi sempre bastava a far confessare anche l’inverosimile a tutti quelli che un minimo erano riusciti a resistere fino a quel momento. La testimonianza di Pha Than Chan, sopravvissuto a queste angherie grazie al suo spirito indomito, è un concentrato di tutte queste cose. Fu arrestato nel 1977 e sebbene fosse torturato regolarmente non ha mai ceduto: << … Mi hanno interrogato per circa un anno. La tortura era terribile. A volte non riuscivo più a respirare. Il dolore era spaventoso. Se non avevi niente da dire cominciavano a picchiare con la frusta. Potete guardare la mia schiena, è ancora piena di cicatrici. Se non rispondevi ti colpivano con una mazza. Alla fine usavano gli elettrodi. Quando perdevi conoscenza, passavano ad altre torture. Si stupivano della mia resistenza. Mi laceravano la carne, mi strappavano le unghie. A loro non importava sapere se sarei morto oppure no …>>.

-CONCLUSIONI-

Il libro di Rithy Panh è un campionario di atrocità che colpisce il lettore con forza inaudita. L’acquisto è consigliato a tutti per capire meglio cosa è stato il dominio comunista in Cambogia e soprattutto riflettere sul fatto che non esiste un “Male Assoluto” ma “tanti mali” che sono “assoluti” per chi ha la disgrazia di esserne risucchiato, in qualsiasi epoca e in qualsiasi luogo del mondo. Voglio chiudere la recensione riportando uno scambio di battute tra il superstite Nath e l’ex-carceriere Houy affinché tutti possano capire a quali conseguenze porti il lavaggio del cervello attuato dai sistemi totalitari e quanto la dittatura dei Khmer Rossi sia stata un “male assoluto” per il popolo cambogiano.

<< … E i bambini, alcuni non avevano neanche un anno, erano ancora lattanti, sapevano appena camminare, contro cosa erano? >> chiede Nath. << Erano anche loro dei nemici? >>

Risposta: << I funzionari del Partito dell’S-21 ci hanno insegnato: “Quando il Partito arresta qualcuno, arresta un nemico del Partito >> spiega Houy.

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